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L'editoriale di Terza Repubblica

Ripensare il sistema politico

L’IMMOBILISMO DI CONTE, LA SUBALTERNITÀ DEL PD, IL VUOTO DEL CENTRO-DESTRA IL SISTEMA POLITICO VA RIPENSATO

03 ottobre 2020

Tra il terrore che suscita nel Paese una nuova ondata di piena del Covid, e la paura che serpeggia nelle forze politiche di nuove elezioni dall’esito incerto dopo il voto regionale e il referendum, il governo vede crescere le sue possibilità di continuare a (r)esistere, galleggiando. D’altra parte, l’Europa, che ci dovrebbe caricare di quattrini, considera fumo negli occhi ogni possibile cambiamento, valutandolo come una circostanza peggiore rispetto a quella, certo non entusiasmante, di dover continuare ad avere a che fare con l’attuale esecutivo di Roma. Tutto ciò suscita due diverse riflessioni. La prima riguarda le mani in cui andranno a finire le risorse del Recovery Fund, che a questo punto, piaccia o non piaccia – e a me non piace – saranno quelle di Conte. Si tratta della partita più importante, da cui dipendono le sorti non solo del governo ma anche di noi tutti. La seconda attiene ai partiti, sulla testa dei quali pendono decisioni da prendere non più rinviabili, e più in generale al sistema politico, che deve ancora trovare un suo equilibrio minimamente stabile.

Dopo mesi di chiacchiere inutili, il presidente del Consiglio ha annunciato, non casualmente in occasione dell’assemblea di Confindustria, di aver deciso la creazione di una struttura ad hoc per il Recovery. Attenzione: non un’agenzia che selezioni i progetti e gestisca le risorse per attuarli, come ha suggerito il mio amico Giorgio La Malfa, che vorrebbe metterla nelle mani di Draghi, bensì una specie di authority con compiti di controllo postumo sulla realizzazione dei progetti stessi. So che più d’uno ha sollevato obiezioni all’idea che possa essere un organismo tecnico ad avere la gestione dei fondi europei: per esempio, nella mia War Room, Bini Smaghi, Passera e Verderami hanno unanimemente respinto l’ipotesi in nome, oltre che della preoccupazione di una dilatazione dei tempi, del primato della politica sui tecnici. Concetto su cui concordo, se non fosse che questa politica, e segnatamente questo esecutivo, non mostra di avere né le competenze né la strategia politica per assolvere al compito. D’altra parte, nessuno pensa che il governo si debba spogliare del suo diritto/dovere di essere il decisore di ultima istanza, ma sembra evidente che in questa circostanza un organismo ad hoc, guidato da una personalità credibile gradita a Bruxelles e nelle principali cancellerie, aiuterebbe il governo – che fin qui è stato solo capace di fare un lungo, generico e talvolta insulso elenco di voci di spesa, salvo poi sminuirlo a pura minuta priva di importanza – a non fare stupidaggini.

Insomma, il tema sussiste nella misura in cui questo governo mostra un’estrema, e a questo punto inguaribile, fragilità. Problema di cui non si occupa Conte, proteso solo ad una sopravvivenza che gli assicuri continuità e, in prospettiva, gli apra nuove opportunità che possano appagare le sue ormai sconfinate ambizioni. Preoccupa, invece, il movimento 5stelle – o almeno chi, al suo interno, come Di Maio, capisce che la tendenza dell’avvocato del popolo a surfeggiare danneggia proprio loro, che già devono scontare la contraddizione di essere al governo (e per la seconda volta) essendo nati come cassa di risonanza delle viscerali pulsioni contro la politica – che però non ha il coraggio e la forza, dopo i reiterati rovesci elettorali, di prendere il toro per le corna. A maggior ragione, però, dovrebbe tormentare il sonno del Pd, che non solo ha bevuto l’amaro calice di doversi accompagnare con gli alfieri del populismo, ma si è addirittura visto metter sotto dai grillini facendosi imporre scelte a cui era contrario – dalla prescrizione al taglio dei parlamentari, fino al mantenimento (almeno fin qui) delle norme sulla sicurezza di stampo salviniano e sul reddito di cittadinanza – quando invece nella precedenza maggioranza gialloverde era la Lega di Salvini a dettare l’agenda. Una subalternità inaccettabile e che ora, anche alla luce dei risultati delle varie consultazioni elettorali, dovrebbe immediatamente dismettere, senza più farsi condizionare dal ricatto, peraltro immotivato, che “se casca il governo arrivano Salvini e i fascisti”. E con essa va riposta nell’archivio la proposta lanciata da Bettini, e fatta propria da chi pensa con troppo anticipo e con troppa apprensione al futuro inquilino del Quirinale, di realizzare tra Pd e M5S addirittura un’alleanza strategica di lungo termine. Non fosse altro perché laddove si è fatta (come in Liguria) il risultato è stato pessimo, mentre nelle regioni dove il Pd ha vinto è perché c’erano in ballo personaggi come Emiliano e De Luca che rappresentano una forma di personalizzazione leaderistica della politica (su scala locale) con cui il Pd non dovrebbe avere nulla da spartire. C’è chi ha definito Zingaretti a metà strada tra il modello Emiliano e il modello emiliano (riferendosi alle buone pratiche amministrative di Bonaccini), per dire che oggi il Pd è contemporaneamente un partito populista (di rito bizantino) e un partito pragmatico e riformista. È tosto ora che scelga.

Alla base di tutto questo c’è l’idea – sbagliata se trattasi di constatazione, malsana se è un auspicio – che sia in atto una ri-bipolarizzazione del quadro politico sull’asse destra-sinistra. Ho letto, per esempio, che un moderato come il ministro Boccia se ne è uscito evocando “piccoli Bolsonaro” che crescono a destra, contro cui far argine, invitando non solo i grillini ma anche Renzi e quelli che chiama con un certo disprezzo “liberali vaganti” a stare al di qua della barricata. La verità, è che il nuovo bipolarismo italiano sta (starebbe) nel separare i populisti e i sovranisti (di destra e di sinistra) da tutti gli altri. Una linea di demarcazione che costringerebbe il Pd a fare i conti sia con i suoi populismi interni – come i governatori autoreferenziali che abbiamo appena citato – che con quello mastodontico, appena celato dal pragmatismo governista di Di Maio, dei suoi alleati. Cacciari sull’Espresso ha detto più che bene scrivendo che il Pd deve chiamare subito un congresso in cui si dicano parole inequivoche sul populismo a 5stelle (e non solo, aggiungo io) sancendo definitivamente la scelta riformista. Il cui corollario non potrebbe che essere una scelta senza più ripensamenti a favore del sistema proporzionale – con i correttivi tedeschi, ovviamente – che solo può favorire la nascita di una nuova forza moderata distinta e distante (per dirla alla Cossiga) dalla destra populista, nazionalista e forcaiola, alleata indispensabile per un partito riformista di sinistra moderna che si vuole emancipare dalle sirene del populismo, seppure mascherato.

Certo, se quello congressuale fosse un momento vero e non solo formale o, peggio, propagandistico, non potrebbe che trattarsi di una rifondazione vera e propria di un partito nato male e proseguito peggio. Un passaggio che serva a mettere a fuoco una linea culturale fin qui affidata solo al “politicamente corretto”, che germini nuove idee programmatiche, che selezioni nuova classe dirigente attraverso l’apertura a personalità e a mondi mai attratti, per diventare un moderno partito riformista capace di attirare e includere il meglio della società italiana. Sarà capace Zingaretti di far questo? Basterebbe che non impedisse l’avvio del processo, poi certo per portarlo a termine occorre altro.

Così come occorre altro anche sul fronte opposto, quello dell’opposizione al governo Conte2. Finora hanno lavorato più i retroscenisti che gli analisi: l’appannamento di Salvini, incapace di dare credibilità ai modesti tentativi di mostrarsi più prudente e moderato; l’ascesa sì, ma solitaria, di Giorgia Meloni, che è carente in quanto a classe presentabile (a parte l’ottimo Crosetto, che però gioca una partita tutta sua e che potrebbe essere il perno di futuri assetti nel centro-destra); il mesto viale del tramonto su cui si è irreversibilmente avviato Berlusconi, e con lui Forza Italia, che non pare avere le risorse per prescindere dalla parabola discendente del suo fondatore, che non fa nulla (non ce l’ha nel dna) per evitare che la sua fine politica coincida con quella della sua creatura. In realtà, velato dai sondaggi che continuano a dare avanti il centro-destra in una futura elezione politica, c’è un doppio tema ben più strategico dei gossip: la necessità di separare la rappresentanza degli italiani che non vogliono affidarsi alla sinistra ma che non amano la demagogia peronista e temono di ritrovarsi lontani dall’Europa da quella di chi si riconosce nelle parole d’ordine sovraniste e populiste alla Trump; il bisogno di un punto di riferimento nell’area centrale della geografia politica nazionale che sappia dialogare contemporaneamente sia con la parte autenticamente riformista della sinistra sia con la parte pragmatica della Lega (quella degli amministratori locali) e raccolga ciò che rimane (di buono) di Forza Italia. 

Insomma, se il Pd ha bisogno di riflettere sull’opportunità di rompere il patto con i grillini, o comunque scrollarsi di dosso la subalternità fin qui patita, nel centro-destra sono diversi gli interlocutori che debbono ripensare la loro collocazione. Altrimenti, nell’uno come nell’altro caso, sarà l’immobilismo di Conte a metterli in off-side. A tutto danno loro e del Paese.

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