Referendum, il SI non scontato
ECCO TUTTI I NUMERI CHE DIMOSTRANO COME L’ESITO DEL REFERENDUM NON SIA AFFATTO SCONTATO (ANZI)
12 settembre 2020
Avendo già analizzato le ragioni, di merito ma soprattutto politiche, per cui il 20 e 21 settembre è opportuno recarsi alle urne per il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari e votare NO, a una settimana dal voto vale la pena di ragionare sul possibile esito della consultazione e sulle conseguenze che essa provocherà.
Solo fino a qualche tempo fa tutti davano per scontato che i Sì avrebbero prevalso, si trattava solo di capire se la vittoria sarebbe stata travolgente o normale. Sondaggi a parte, la cosa aveva una sua logica stringente: il voto parlamentare che aveva approvato la legge poi diventata oggetto di consultazione referendaria era stato quasi plebiscitario; le forze politiche e culturali che hanno voluto il referendum e sostenuto le ragioni del NO erano del tutto minoritarie; la fama che gli italiani si sono fatti è di essere desiderosi di assestare schiaffi alla cosiddetta casta; nell’ultima elezione politica, quella del 2018, i partiti dichiaratamente populisti erano maggioranza; il vento che spira in giro per l’Occidente è quello dell’antipolitica. Insomma, tutto congiurava a favore del fatto che la stragrande maggioranza degli italiani avrebbe detto in coro: “un terzo di parlamentari in meno? ma sì, togliamoceli dai piedi”.
Poi, complice il Covid – cioè la consapevolezza che il ceto politico ha in mano la vita di ciascuno di noi – e una notevole dose di pavidità della politica, che ha pensato di incassare la vittoria del Sì senza doversi impegnare ed esporre a sostenere motivazioni francamente risibili come il taglio dei costi e la miglior organizzazione dei lavori parlamentari (della serie, meno siamo meglio stiamo), il clima è via via cambiato. Fino al punto che le persone che si interessano al referendum, ascoltano le ragioni dei due fronti e provando ad andare al di là degli slogan qualunquisti, sembrano nettamente a favore del NO. Certo, bisogna vedere quanto questa categoria di cittadini “pesi” in termini relativi sul totale degli aventi diritto al voto, ma intanto il “comune sentire” si è radicalmente trasformato, tanto da far sorgere molti mal di pancia dentro i partiti pur ufficialmente schierati a favore della conferma della norma.
Ma questo non si riflette solo sui mezzi di informazione, sul “segno” del dibattito. Peserà, e molto, nelle urne. Per il semplice motivo che, come è sempre avvenuto, a votare nei referendum, vanno soprattutto coloro che sono fortemente motivati, mentre gli altri preferiscono “andare al mare”. E in questo caso non c’è dubbio alcuno che – se non esclusivamente, di certo prevalentemente – i motivati sono quelli del NO. A favore dei quali gioca anche il fatto che quello a cui ci accingiamo a rispondere è un tipo di quesito referendario che non richiede soglie minime, basterà avere un voto in più della tesi opposta. Congiura contro, invece, la coincidenza – non casuale, peraltro – tra referendum e voto regionale. Ovviamente, per quest’ultimo le motivazioni per andare alle urne sono ben diverse, e porteranno ai seggi molti più elettori. I quali, una volta lì è assai probabile che finiranno per votare anche per il referendum. Difficilmente lo avrebbero fatto se non ci fosse stato il traino del voto regionale, ma visto che c’è. Ed è proprio su questo che si basa l’idea che i Sì finiranno per prevalere, anche se non più, come si ipotizzava, in modo travolgente.
Può darsi che alla fine vada così. Ma anche no. Facciamo due rapidi calcoli. Gli aventi diritto al voto sono circa 51 milioni, di cui 18,3 milioni i cittadini delle sette regioni (Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto) chiamate a rinnovare i loro consigli regionali. Questo significa che l’incidenza del “voto abbinato” è solo del 36%, poco più di un terzo. Per gli altri 32,7 milioni di elettori la motivazione ad andare ai seggi sarà solo quella del referendum. Ora, mediamente alle ultime amministrative regionali in quelle sette regioni l’affluenza è stata del 55%, ed è improbabile che questa volta sia di più. Parliamo dunque di 10 milioni di votanti o poco più. Supponiamo che costoro diano al Sì il 70% e al NO il 30%. Dunque, 7 e 3 milioni. E supponiamo di attribuire ai votanti del solo referendum, e cioè i cittadini delle 13 Regioni dove non c’è il voto amministrativo, un risultato rovesciato rispetto a quello che abbiamo ipoteticamente attribuito a quelli delle 7 Regioni bivotanti, cioè 70% al NO e 30% al Sì. A quel punto, calcolatrice alla mano, per determinare la vittoria dei NO, occorre che vada ai seggi referendari non meno del 34% degli aventi diritto, cioè poco più di 11 milioni. Perché 7,78 milioni di NO si sommerebbero ai 3 milioni conquistati nelle 7 Regioni, mentre 3,33 milioni si sommerebbero ai 7 milioni di Sì. Chiaro che se le percentuali di voto tra i Sì e i NO dovessero scostarsi da quanto ipotizzato, di conseguenza cambierebbe la percentuale di votanti necessaria per determinare la vittoria del fonte del NO.
Fantacalcoli? Certo, la mia è pura speculazione matematica. Ma non si tratta di numeri e percentuali buttate lì a caso, hanno una loro plausibilità. E se si rivelasse fondata l’ipotesi del 70-30 incrociato, immaginare che nelle 13 Regioni univoto si arrivi a superare, anche di poco, un terzo dei votanti, non sarebbe così peregrino. So che il confronto è improbo, per la diversa valenza sia costituzionale che politica, ma il cosiddetto referendum Renzi, nel dicembre 2016 – sembra un’era geologica fa, eppure non sono passati neanche 4 anni – vide l’afflusso del 65% degli aventi diritto. Qui si tratterebbe di poco più della metà.
In tutti i casi, è ormai evidente che l’affluenza avrà un’importanza decisiva sul risultato del referendum. Per cui occorre che tutti coloro che hanno capito le ragioni del voto contro questa legge non solo si sforzino di mettersi in fila ai seggi, ma facciano proselitismo nel cerchio delle loro conoscenze e nel limite delle loro possibilità. Più che attardarsi a cercare di far cambiare idea a chi è convinto di votare Sì, il consiglio è duplice: indurre gli interlocutori a superare inerzie e scetticismi, adoperarsi a rimuovere pregiudizi. Uno, quello che il NO sia predestinato alla sconfitta per via della concomitanza del voto regionale, ho cercato di confutarlo, numeri alla mano. L’altro pregiudizio è relativo all’importanza dell’argomento oggetti di voto: in molti si è fatta strada l’idea che in fondo se i parlamentari sono 600 o 900 non fa alcuna differenza e che, anzi, sia uno spreco di tempo e di risorse chiamare gli italiani ad esprimersi in merito. Come ho già detto, chi facesse studi comparativi con altre realtà occidentali, potrebbe arrivare alla conclusione, con ottime ragioni a supporto, tanto che il numero dei nostri attuali deputati e senatori sia riducibile, tanto che sia mantenibile inalterato o addirittura che sia aumentabile. Quindi a fare la differenza è la qualità del ceto politico e delle istituzioni, non la quantità degli eletti. Ma sbaglierebbe chi traesse anche da queste mie parole la conclusione che chissenefrega. Perché far passare il taglio senza contestualizzarlo dentro una riforma più articolata, che appunto incida sulla qualità del sistema politico-istituzionale, significa mettere una pietra tombale sul più che necessario cambiamento: per costruire una casa nuova non si parte da una finestra, e peraltro secondaria.
Qui mi corre l’obbligo di commentare quanto ha scritto su Repubblica il mio amico Michele Ainis, valente costituzionalista e acuto osservatore delle vicende nazionali. Egli, mettendo in relazione i referendum costituzionali del 2006 (Berlusconi) e di dieci anni più tardi (Renzi) – entrambi rigettati dai cittadini, è bene ricordare – con quello che ci aspetta, coglie il fatto che nei casi precedenti fummo costretti a prendere o lasciare in blocco un gran numero di riforme su una vasta gamma e talvolta disperata gamma di argomenti, mentre quello odierno ha il vantaggio della semplicità monotematica. Ainis ha ragione, e ricordo che allora sia lui che io (con meno titoli) proponemmo, inascoltati, lo spacchettamento del voto per temi. Ma caro Michele, il fatto che stavolta la consultazione abbia questo pregio, non milita necessariamente a favore del Sì, che pure dichiari – facendomi sanguinare il cuore – di preferire. Né, scusami, vale l’osservazione che questa possa essere considerata la premessa per il completamento dell’intervento costituzionale, con la legge elettorale, la ridefinizione dei collegi e la revisione dei regolamenti parlamentari. Sia che questi interventi li si consideri necessari per correggere le storture che la riduzione sic et simpliciter dei parlamentari produce, sia che li si auspichi per dare un senso ad un intervento normativo che in sé è solo demagogico e propagandistico, comunque andavano proposti prima. E invece a distanza di un anno dal “taglio”, non solo nulla è stato deciso in merito, ma neppure nulla si sa, al di là di una generica propensione per il sistema di voto proporzionale (che può essere buono o cattivo a seconda dalla sua effettiva declinazione), delle intenzioni delle forze di governo che si sono fatte carico di sostenere il Sì al referendum. Anzi, si conoscono le distanze siderali che misurano le diverse opzioni in materia di riforme costituzionali e di legge elettorale non solo tra Pd e 5stelle, ma anche all’interno di entrambi i partiti. Diversità alimentate poi dall’opportunismo di Renzi – patetica la decisione di non prendere posizione sul referendum lasciando libertà di voto, come se i suoi (pochi) elettori pendessero dalle sue labbra – e dalle incertezze strategiche di chi sta alla sinistra del Pd.
In conclusione, la partita del referendum è: a) importante; b) aperta; c) foriera di novità politiche (ma di questo parleremo la settimana prossima, alla vigilia del voto). Il suo esito è tutto nelle mani della consapevolezza degli italiani che andare a votare NO fa bene alla salute di un paese malato.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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