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L'editoriale di Terza Repubblica

Il Covid, la crisi economica e Conte

LA RECESSIONE POTREBBE ESSERE MENO DISASTROSA, LO STATO D’EMERGENZA SERVE SOLO A CONTE 

18 luglio 2020

E se la crisi economica da pandemia fosse meno drammatica di quanto abbiamo temuto fin qui? In un paese di sottovalutatori incalliti della gravità del nostro declino strutturale, so di prendere un bel rischio ad azzardare una domanda del genere. Tuttavia, è giusto tener conto di alcuni segnali, piccoli ma non trascurabili. Il primo viene dai dati della congiuntura: a maggio la produzione industriale è rimbalzata del 42%, dopo che a marzo e aprile era scesa di oltre il 50%, e a giugno è ulteriormente aumentata di quasi il 4% rispetto al mese precedente. Certo, rispetto al 2019 siamo sotto del 22%, e i due trimestri chiudono rispettivamente a -8,4% e a -21,6%. Ma, visto anche il crollo del settore automobilistico, ci si poteva aspettare di peggio. Ora, è vero che il manifatturiero vale un terzo del pil, e che sugli altri due terzi pesano quei servizi – a cominciare dal piccolo commercio e dal turismo – dove non solo il crollo è stato più pesante, ma anche l’uscita dal lockdown è più lenta e in molti casi inesistente (basta vedere il numero dei negozi e degli alberghi che non hanno ancora riaperto), però tanto basta a formulare per quest’anno ipotesi di riduzione della caduta del pil a una e non a due cifre. Lo ha fatto la Banca d’Italia, che ipotizza nove punti in meno (che salirebbero a 11 o forse anche a 13 se ci fosse una recrudescenza del Covid) e da ultima persino la Confcommercio (-9%) che pure rappresenta gli interessi economici maggiormente toccati dalla pandemia, il centro studi Ref (-9,2%) e il Cer, che con una previsione del -7,2% è sicuramente il meno pessimista. Ma personalmente più di ogni altra cosa mi hanno colpito le parole spese da un economista rigoroso e privo di qualunque condizionamento politico come Pierluigi Ciocca, ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, che in uno speciale di War Room dedicato al suo ultimo libro (qui il link per vederlo) si è detto sicuro che la crisi sia descrivibile con la lettera V e che il recupero, già in atto, riesca nel 2021 a recuperare quanto perso nel 2020. Una tesi su cui concorda anche un altro keynesiano come Ciocca, Giorgio La Malfa, che fin dall’inizio della pandemia ha affermato il carattere transitorio della recessione.

Naturalmente, tutto questo nulla toglie al fatto, su cui tutti concordano, che l’economia italiana stia affrontando la crisi economica più grave dai tempi della seconda guerra mondiale o dal 1929. Ma essendo le caratteristiche dello shock che ha causato questa crisi molto diverse rispetto a qualsiasi precedente nella storia economica recente, è davvero difficile fare pronostici attendibili. Io, comunque, mi accontento di sapere che ci siano speranze fondate, e non ostentazioni di ottimismo di maniera, di una minore drammaticità di questa crisi, visto che ho temuto (e un po’ continuo a temere) una specificità italiana della medesima, per via del fatto che già nella seconda metà dell’anno scorso e a gennaio-febbraio eravamo con un piede e mezzo in recessione.

In tutti i casi, una cosa deve essere chiara: forte o debole che sia il tentativo di ridurre l’impatto della frenata recessiva, tanta o poca che sia la spinta alla ripresa, il merito della reazione è tutto dei protagonisti dell’economia reale: imprenditori, lavoratori, partite Iva, professionisti. Dal governo non è venuto nulla. E non solo perché i soldi promessi sono arrivati tardi e non a tutti, ma perché non è con i sussidi che si può fronteggiare una crisi di questa natura e portata. Si può attenuare il malessere sociale, questo sì, ma non costruire le basi di una riscossa economica che abbisogna di capacità di analisi, di idee chiare, di un progetto di medio termine e della creazione di molte condizioni di contorno – normative, procedurali, di funzionamento della giustizia e della burocrazia – cioè tutte competenze di cui l’attuale governo non dispone neppure in miniatura. Anzi, stiamo partecipando (mentre scrivo è in corso) ad un Consiglio europeo di decisiva importanza – visto che si discute (anzi, ci si scanna) sul volume del Recovery Fund e il rapporto tra sussidi e prestiti, e sulle correzioni al Bilancio 2021-2027 – senza aver deciso se e che misura faremo uso del Mes, prestando così il fianco ad una (giusta) accusa di sovranismo strisciante proprio di fronte a risorse che dovrebbero consentirci di mettere il sistema sanitario all’altezza di reggere eventuali ondate di ritorno del Covid, ed essendo ancora lontani mille miglia dall’aver definito il programma di spesa e di riforme con cui stiamo chiedendo i soldi del Recovery. Anzi, per essere più precisi, non abbiamo neppure chiarito a noi stessi se si vuole continuare a spendere (bonus, sussidi, interventi pubblici a sostegno delle aziende in crisi) o se, finalmente, s’intendono puntare sugli investimenti, facendo quelli pubblici e favorendo quelli privati. E di conseguenza non abbiamo ancora creato il gruppo di lavoro che deve redigere un piano che certo non potrà essere  l’elenco di buone intenzioni in cui consiste il cosiddetto PNR, il Piano nazionale delle riforme mandato nei giorni a Bruxelles, ma dovrà contenere i dettagli dei progetti che dovranno giustificare l’esborso dei soldi previsti dal Recovery Fund.

Come spiega Ciocca, i tedeschi, che definisce “keynesiani tardivi”, dopo aver deciso che sono gli investimenti a colmare il vuoto della domanda, hanno messo in campo, in rapporto al pil, quasi il triplo delle risorse che noi immaginiamo, e di cui, per di più, non abbiamo ancora scelto la destinazione. Questo significa alimentare il pericolo di una ripresa “sfasata” in Europa, che giustamente Ferdinando Giugliano mette in cima alla lista delle disgrazie che ci possono capitare, perchè con i paesi più forti fuori dalla crisi e quelli deboli no, la Bce avrebbe difficoltà a reiterare gli aiuti fin qui messi in campo, e Bruxelles sarebbe spinta a ripristinare il patto di stabilità. Per l’Italia sarebbe un disastro. Ma per evitarlo non serve imprecare contro i “cattivi” e non basta il colpo di reni dell’industria nazionale: serve un governo che governi.

Invece, siamo di fronte ad un vuoto decisionale che da un lato viene riempito con la creazione a getto continuo di commissari straordinari per qualunque situazione, e dall’altro con la scelta di prolungare lo stato di emergenza, in modo da dare l’idea, comunicativamente parlando, che ai pieni poteri corrisponda una capacità di governo. Onnipotenza e immobilità: un ossimoro comanda a palazzo Chigi. Cui si aggiunge, però, anche una buona dose di fastidiosa furbizia. Perché deve esservi chiaro, cari lettori, che la scelta di porre ora il tema dell’estensione a fine anno, o anche solo a ottobre, dello stato di emergenza per il Covid, anziché se e quando dovessero esserci le avvisaglie di una nuova recrudescenza della pandemia, non ha alcuna giustificazione di merito – e non avrebbe alcuna conseguenza pratica positiva, così come non ci fu dal 31 gennaio, quando l’emergenza sanitaria fu proclamata, fino ai primi giorni di marzo, allorché divenne dilagante – e al contrario ha alcuni obiettivi politici ben precisi. Conte, infatti, sa che la sopravvivenza sua e del suo governo dipende, da un lato, dal protrarsi della percezione di inevitabilità di avere un esecutivo in carica che fronteggi la pandemia ancora troppo pericolosamente dilagante senza che questo sia messo in discussione da contrasti politici che i cittadini impauriti non potrebbero sopportare, e dall’altro, dalla possibilità di scansare qualunque cosa possa portare turbamento alla maggioranza già abbastanza divisa di suo. E in cima alla lista di questi possibili “disturbi” ci sono sicuramente le elezioni regionali e il referendum sulla legge che ha ridotto il numero dei parlamentari, entrambi già programmati per il 21 e 22 settembre. In particolare, il voto in nove regioni mette molta ansia al presidente del Consiglio – che tra l’altro non avrebbe ancora pronto il suo partito, per costruire il quale sembra essersi affidato a Bruno Tabacci, che gli consentirebbe di evitare di raccogliere le firme per presentare una sua lista – che sa quanto quella competizione tirerebbe la corda già così tesa da essere lacera, fino a spezzarla, dei rapporti tra 5stelle e Pd e dentro entrambe le forze politiche. È dunque evidente che se al momento giusto arrivasse un bel Dpcm, che lo stato di emergenza consentirebbe a Conte di emanare, in cui si considerasse l’election day incompatibile con la situazione sanitaria del paese, la sopravvivenza del Conte2 ne gioverebbe assai. Tanto più ora che Di Maio mostra un inedito movimentismo relazionale (Draghi, Gianni Letta) che risulta fastidioso a chi si è abituato a fare da solo, e gli piace. Ipotesi troppo maliziosa? Può darsi. Ma non v’è chi non veda che la migliore (si fa per dire) qualità dell’avvocato del popolo sia quella di surfeggiare tra i problemi, evitando sempre di prendere decisioni ritenute, a torto o a ragione, dividenti. Il caso Autostrade, da questo punto di vista è emblematico: ci si è messo meno a ricostruire il ponte Morandi che a fare una “mezza scelta” (sono ancora tante le variabili non definite) dopo aver minacciato per due anni la revoca (impraticabile) della concessione. Il tutto all’insegna del puro tatticismo.

Di fronte a questo scenario, non è mancato chi ha lanciato l’allarme, un “sos democrazia”, sia per il sistematico scavalcamento del parlamento sia per la deriva plebiscitaria del nostro sistema istituzionale. Non sottovaluto questo rischio, ma francamente penso che più che la democrazia – peraltro già da molto tempo malata, ben prima che sapessimo dell’esistenza dell’avvocato Conte e del suo curriculum agli estrogeni – sia in pericolo il nostro sistema economico. La reazione dell’industria italiana, almeno di buona parte del manifatturiero, è stata ben più forte di quanto ci si potesse aspettare. Ma per renderla simmetrica con quella degli altri paesi e nello stesso tempo per cominciare ad aggredire i problemi strutturali lasciati marcire da un quarto di secolo, occorre ben altro che il “tirare a campare” del governo Conte. Per quanto possa apparire paradossale in una situazione così difficile, ci vuole ben altro che lo stato di emergenza e la solipsistica concentrazione dei poteri nelle mani di uno solo. Siamo davanti ad un passaggio decisivo, epocale, della nostra storia patria, e la lungimiranza, la saggezza, la solidità, la serietà sono qualità indispensabili non meno dell’energia, della velocità, della determinazione. La politica di oggi – intesa come ceto politico e come istituzioni – non possiedono queste qualità. È venuto il momento che i cittadini di buona volontà e di buon senso s’impegnino a far riemergere caratteristiche genetiche che il paese ha dimostrato, in altre epoche, di possedere

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.