Tornare indietro o andare avanti?
TORNARE INDIETRO O ANDARE AVANTI? SIAMO AL BIVIO TRA DERIVA ARGENTINA E RINASCIMENTO ITALIANO
27 aprile 2020
L’Italia è di fronte ad un crocevia epocale, che potrà deciderne le sorti per molte generazioni a venire. Per la verità sono molti i bivi cui siamo innanzi, ma ce n’è uno che li riassume tutti: vogliamo tornare indietro o andare avanti? Per essere più espliciti, vogliamo considerare il Covid un’emergenza sanitaria da cui rientrare al più presto e con minore danno possibile, per appunto tornare alla situazione preesistente, oppure preferiamo considerarlo anche un’opportunità – non sembri irrispettoso verso la sofferenza che il virus ha generato – grazie alla quale poter fare quel balzo in avanti verso la modernità che non siamo riusciti a compiere prima? Messo in questi termini, il dilemma potrebbe apparire facile da sciogliere: “andare avanti” suona meglio di “tornare indietro”. In realtà, la questione è molto più complessa e la domanda produce molto più tormento di quanto non si pensi. Proviamo a capire perché.
Il nostro Paese è dentro un declino che dura ormai da trent’anni. Lento, ma inesorabile. Un progressivo scadimento che pervade tutti gli aspetti della vita nazionale: da quello politico e istituzionale a quello economico, da quello sociale a quello culturale. I diritti che prevalgono sui doveri, il merito che soccombe di fronte alla mediocrità, la lentezza e la conservazione che soverchiano la velocità e il cambiamento, la cultura del rischio che alza le mani di fronte alla massimizzazione delle garanzie e alla deresponsabilizzazione. Un impasto di pigrizia, riflessi condizionati, pregiudizi ideologici, conformismo. Tanto che si potrebbe parlare di un processo di involuzione antropologica. Naturalmente, non è un fenomeno a senso unico e uniforme, ci sono ampi strati di popolazione e diversi ambiti nei quali l’eccellenza fa premio. A macchia di leopardo. Ma la tendenza, riassunta nel decadimento del ceto politico e della classe dirigente così come nella perdita di credibilità delle istituzioni pubbliche (e un po’ anche di quelle private), non c’è dubbio che sia ineludibilmente quella.
La cosa grave è che non ne siamo consapevoli, o quantomeno non fino in fondo e non se siamo chiamati in prima persona ad assumerci la nostra quota parte di responsabilità. Passiamo dalla qualunquistica affermazione che tutto è “emme” a quella consolatoria che in fondo siamo un grande paese, con i ristoranti sempre pieni (pre-virus) e mediamente due auto e due telefonini a testa, e che la colpa di quello che non va è del nemico di turno (la casta, i tedeschi, Bruxelles, l’euro, le banche, gli immigrati, ecc.). In pochi sono consapevoli che la montagna di debito pubblico su cui siamo seduti è la certificazione contabile di un gigantesco trasferimento di ricchezza dalle casse dello Stato a quelle di ciascuno, di categorie, territori, percettori di rendite – sostanziata in quasi 9 mila miliardi di patrimonio privato, tre volte e mezza il debito pubblico e cinque volte il pil – perché piace di più credere che sia il frutto di furti e malversazioni di chi comanda e mette le mani nelle tasche della povera gente.
Il risultato è una sorta di schizofrenia nazionale: da un lato, la parte protetta dei cittadini, compresi gli imprenditori che vivono attaccati al bocchettone della spesa pubblica, vuole mantenersi garantita e dunque è contraria a qualsiasi cambiamento, ma nello stesso tempo protesta perché vorrebbe ancor più protezione e pensa che ci siano dei privilegiati che glielo impediscano; dall’altro lato, la parte che rischia e si mette in gioco, che sua volta si divide tra coloro che si arrangiano (evasione, elusione, nero) e coloro (parliamo sia degli imprenditori e dei professionisti, sia dei loro dipendenti e consulenti) che invece accettano la sfida della concorrenza, dei mercati internazionali e dell’innovazione tecnologica. Ma questi ultimi, che sulla carta sono la parte più sana e determinante della società, a loro volta hanno il grave difetto (tranne poche eccezioni) di essere chiusi nel loro mondo e, pur mugugnando per ciò che non va, di non formare una élite consapevole del proprio ruolo sociale. Naturalmente non mancano le esimenti, a cominciare dalla deterrenza ad occuparsi della cosa pubblica esercitata dalla magistratura, che con il suo truce giustizialismo incute paura e allontana i migliori.
Tuttavia, questa è la fotografia socio-economica degli italiani così come sono entrati nel tunnel del Covid. Ed è questa l’Italia che ora, costretta dal coronavirus e dai suoi letali effetti sanitari prima ed economici poi, è di fronte al bivio del che fare. Lo sono il Governo, il Parlamento, le forze politiche, le istituzioni centrali e periferiche. Lo sono le forze economiche e sociali, le imprese, i lavoratori. Lo sono le famiglie e i cittadini in quanto tali. Fino a ieri il crocevia era rappresentato dalla scelta tra cura della salute e tutela del lavoro. Finché nell’opinione pubblica ha prevalso la paura della peste, la strada indicata era quella del lockdown e della sua esaltazione morale, quasi epica. Quando è cominciata a subentrare la stanchezza della segregazione e la paura che la pandemia si trasformasse in carestia, ecco che si (stra)parla di riapertura, di ritorno (seppur graduale) alla normalità. Nel primo caso si è imposto il “tutti a casa” senza indicare preventivamente le conseguenze economiche del blocco, nel secondo si è arrivati a pochi giorni dalla (presunta) fine del lockdown del 4 maggio senza uno straccio di regola, né tantomeno di preparazione organizzativa. Il tutto, sia fase 1 che fase 2, nel pieno di una confusione totale, ridicola se non fosse drammatica, che contrappone il governo centrale presunto decisionista – che per poterlo essere ha sospeso la normale dinamica democratica, per di più procedendo discutibilmente sul piano costituzionale come ha spiegato Sabino Cassese nella mia War Room) – agli amministratori regionali e provinciali e ai sindaci, e che si nutre di un numero crescente di esperti (veri e presunti) e di task force che li raggruppano.
Nello stesso tempo si è aggiunto, agli altri dilemmi, quello finanziario: tra “facciamo da soli” (sottinteso: che con il debito ci sappiamo fare) e “andiamo ad esigere il dovuto in Europa”, il problema è trovare i soldi necessari a risollevarci dopo lo tsunami (tanti, tra il 10% e il 15% del pil, cioè tra 170 e 250 miliardi). Un dubbio su cui si sono scaricate vecchie pulsioni sovraniste e nuove furbate populiste. E che per la doppia incapacità di non saper indicare la strada maestra da percorrere – che non può non essere quella europea, se non per afflato ideale certamente per stato di necessità – e di non saper negoziare nei contesti internazionali, ci ha esposto al rischio di vederci espulsi dall’euroclub. Un passaggio che per noi sarebbe esiziale e ci porterebbe al default, alla deriva argentina. Per fortuna, è prevalso il timore del peggio (no, di buonsenso non si può parlare), che sommato con la capacità negoziale di Francia e Spagna in seno al Consiglio Europeo (di cui abbiamo usufruito) e la prudenza di Standard & Poor’s che ha confermato il nostro rating evitandoci l’onta di veder finire i Btp tra i titoli “spazzatura”, ci ha per ora consentito di salvarci in corner.
Ma se alla fine bene o male riapriremo bottega e se, bene o male, resteremo in Europa, ciò non ci esimerà dal dover scegliere che strada imboccare al cospetto del “bivio dei bivi”: torniamo indietro o andiamo avanti? La prima è la via più semplice e per la quale, come ho cercato di dire all’inizio del mio ragionamento, siamo naturalmente portati. Nello specifico, si tratta appunto di continuare a fare come prima, salvo in un contesto reso molto più difficile sia dal permanere del virus – che richiede abitudini comportamentali e una organizzazione di vita personale e sociale diversa da quella del passato, almeno fintanto che non sarà trovato l’antidoto – sia dalla crisi recessiva che il lockdown ha generato. In questo caso tutte le scelte – quelle politiche, ma anche quelle professionali e personali – saranno all’insegna del metterci una pezza in attesa che il virus sia sconfitto e le lancette dell’orologio nazionale siano riportate a prima del Covid. Un atteggiamento sostanziale, che come sempre sarà però accompagnato da un’affabulazione di segno opposto.
La seconda strada è decisamente più impervia. Per sceglierla occorre avere la piena consapevolezza del declino italiano, della sua dimensione e articolazione, e di conseguenza dell’effetto moltiplicatore e acceleratore che la crisi avrà su di esso. Imboccarla – intendo sul serio, non a chiacchiere – significa accettare l’idea di rimettere in discussione tutto: noi stessi, prima di tutto, e poi la società, intesa come mentalità collettiva e come modelli organizzativi, il sistema economico (il capitalismo all’italiana), la politica, le istituzioni. Significa archiviare la lunga stagione del sommerso fai da te e al tempo stesso smontare il soffocante avviluppo di regole e regolette con cui si è preteso di normare ogni singolo atto delle nostre attività, applicando finalmente il sano principio che tutto è permesso tranne ciò che è espressamente vietato. Significa, di conseguenza, riformare in modo radicale la giustizia, togliendo quella cappa plumbea che blocca l’intrapresa, favorisce la deresponsabilizzazione diffusa e allontana i migliori dalla cosa pubblica e dalla politica. Significa liberare le imprese da mille vincoli e adempimenti spesso solo formali (per capirci, la velocità con cui a Genova si è ricostruito il Ponte Morandi che diventa regola e non resta eccezione), ma controllarle ex-post e castigarle severissimamente quando sbagliano. Significa investire e lavorare come fu nel secondo dopoguerra, dimenticandosi le rendite di posizione. Significa organizzare una società digitale – fateci fare lo smart working con la fibra e vedrete come aumenta la produttività – e abbandonare ogni forma di protezione e indulgenza per quella analogica. Significa ridurre in modo significativo il perimetro della pubblica amministrazione, privatizzandone funzioni e servizi, e nello stesso tempo specializzare e rendere competitiva e meritocratica (con incentivi e disincentivi) la parte che rimane. Significa ripensare senza pregiudizi all’architettura istituzionale, semplificando quella del decentramento e restituendo competenze allo Stato (la sanità, prima di tutto), ma anche cancellando i tanti orpelli che hanno sede a Roma.
Ma significa, prima di tutto e soprattutto – perché propedeutica ad ogni altro cambiamento – la trasformazione del sistema politico e la rivisitazione delle istituzioni. Un reset che richiede la riscrittura delle regole basilari – senza la furia iconoclasta di chi vorrebbe buttar via la Costituzione, ma neppure senza il tabù della sua intoccabilità – partendo da un’Assemblea Costituente che segni il primo passo del nuovo Rinascimento italiano. Troppo difficile? Troppo ambizioso? È probabile. Un salto nel buio troppo rischioso? Può darsi. Metti in discussione abitudini, garanzie e privilegi? Sicuramente. Ma prima di rinunciare è bene convincersi che scegliere di tornare indietro è ancora più rischioso, perché i ponti levatoi si sono alzati e la probabilità di finire nel burrone – la deriva argentina – non è altissima, è quasi una certezza.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.