Progettare il New Deal
È L’ORA DI SCELTE CORAGGIOSE PER EVITARE IL DISASTRO E PROGETTARE IL NEW DEAL
05 aprile 2020
Se non ora, quando? Il titolo del romanzo di Primo Levi, poi preso a prestito dal movimento femminista, si presta a perfezione per definire non solo l’attesa – crescente nella società – della cosiddetta “fase 2” nella gestione dell’emergenza coronavirus, ma anche la rinascita, su altre basi, della Repubblica italiana. Vediamo di capirci.
Una volta imboccata la strada del lockdown – sul quale è oggi inutile, anzi controproducente, aprire un processo valutativo, sia in sé che per il modo con cui è stato gestito – è ovvia la necessità che quella scelta trovi un suo logico compimento. Tuttavia, è dovere di chi ha fatto propria quell’opzione e ne ha deciso le modalità, dire con chiarezza qual è il punto di caduta di questo sistema di contenimento del contagio. Non si tratta di indicare una data di fine lockdown punto e basta, ma spiegare ai cittadini a cui si chiede di restare chiusi in casa e di azzerare ogni contatto sociale con quali criteri si deciderà di porvi termine. Quando i contagi saranno a zero, e quindi tra diversi mesi? Per esempio uno studio eseguito da Boston Consulting Group ci dice che l’Italia dovrebbe uscire dal lockdown tra le seconda settimana di giugno e la prima di luglio: è una valutazione fondata? Altre proiezioni disegnano la curva del contagio diversamente, e quindi se ne deducano date più anticipate: chi ha ragione? E quando il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli, afferma che l’indice di contagiosità definito “R con 1” che abbiamo raggiunto “non basta” perchè “occorre ridurre ancora e portarlo sotto 1 per avere l’evidenza che la diffusione epidemica si è quanto meno arrestata come incremento giornaliero”, va considerato vangelo o una sia pur molto autorevole opinione?
Una risposta a queste domande – che sono fatte di ansia e preoccupazione, ma anche di necessità di programmare il lavoro – va data, e subito. Anche perchè il governo – che non può continuare a trincerarsi dietro gli esperti sanitari, che è soltanto una delle voci che vanno ascoltate – deve assumersi la responsabilità di dire al Paese se intende far proprio un punto di mediazione, e quale, tra l’ambizione di salvare le vite e quella non meno nobile di salvare l’economia e quindi i livelli di benessere raggiunti da tutti e da ciascuno, o seppure intende perseguire il “rischio zero”, e come. Non basta andare in televisione per annunciare decreti – di cui peraltro si sa già il contenuto, salvo non esserci pronto il testo e quindi i fondamentali dettagli – occorre andare inParlamento e guardare negli occhi gli italiani,indicando con coraggio che strada s’intende percorrere. Quale che sia. In caso, contrario, ben presto sarà il caos.
Chi avesse dubbi circa questa mia impostazione, veda il numero dell’Economist appena uscito, il cui titolo di copertina è un pugno nello stomaco, ma drammaticamente realistico: “A grimcalculus”, cioè le “scelte nette tra vita, morte ed economia” cui il Covid costringe. Cinico? Se, come si è detto, siamo in guerra, occorre sapere quanto si è disposti a spendere e a perdere nella lotta contro il nemico. Vogliamo assumere che ogni vita umana, di qualunque età e di qualunque condizione fisica, viene prima di qualunque altraconsiderazione? Bene. Basta chiarire senza infingimenti qual è il prezzo di questa scelta e dirci che siamo disposti a pagarlo. E se fosse troppo? Diciamoci dove intendiamo fermare l’asticella del compromesso, e agiamo di conseguenza. Certo, duole constatare che ci voleva il settimanale britannico a porre in modo così esplicito, se si vuole anche urticante, un quesito fondamentale che nessun media e tantomeno nessun politico (ma ce ne sono ancora in giro?) ha posto al Paese, mettendolo anch’esso di fronte alle proprie responsabilità. Perchèquesta è una scelta che ciascuno di noi deve fare in cuor suo: smettiamola di trattare gli italiani come dei bambini da educare, cui ciascun personaggio con un minimo di notorietà si sente in dovere di recitare la filastrocca dei sani principi e dei buoni comportamenti, e chiamiamoli – chiamiamoci – a condividere la risposta che occorre dare a questo maledetto “grim calculus”.
Per quello che mi riguarda, dico senza mezzi termini che sono disposto a pagare il prezzo, collettivo e personale, di un prolungamento del lockdown massimo fino alla fine di aprile o inizi di maggio, e dopo sono disposto assumermi il rischio, prima di tutto personale, derivante dal convivere con il virus, seppure a rigorose condizioni e attraverso una fuoruscita graduale dalla segregazione. Andare oltre, a parte l’alta probabilità di alimentare tensioni sociali assai pericolose perchè mesi di reclusione casalinga avranno minato coesione sociale e salute mentale, significherebbe non soltanto dare un colpo mortale alla produzione della ricchezza, buttando a mare un tessuto produttivo costruito nei decenni e con esso centinaia di migliaia di posti di lavoro, ma anche ritrovarci un paese che a causa di un eccessivo debito a fronte di un’economia fragile e marginale, rischia di uscire dall’euro per imboccare una infelice e pauperistica “deriva cubana”. Luca Ricolfi, con la consueta lucidità, ci dice di capire le ragioni di quello che chiama, forse con un filo di biasimo, “il partito della riapertura”, ma sostiene che “lo scenario più catastrofico per l’economia non è quello in cui apriamo troppo tardi” bensì quello opposto, in cui si riapre e poi “l’epidemia riparte a pelle di leopardo” e noi a causa della “consueta disorganizzazione e miopia della classe dirigente non siamo ancora nelle condizioni di bloccare ogni focolaio” e ci tocca ricorre ad un “secondo lockdown, ancora più brutale e lungo”dell’attuale. Il fatto è, caro Ricolfi, che come tu stesso ammetti, neppure se attendessimo l’agognato livello “nuovi contagi zero” saremmo al riparo dal pericolo che paventi. Perchèl’approssimazione e la confusione regnano sovrane; perchè il conflitto tra lo Stato centrale e le Regioni è ogni giorno più evidente e marcato;perchè il sistema sanitario, nonostante le tante eccellenze e il meraviglioso spirito di abnegazione di medici e paramedici, fa acqua da tutte le parti; perchè non esiste un piano, salvo il volontarismo locale, né per l’assistenza dei malati a casa né per la quarantena dei positivi che non possono rimanere a casa; perchè non esiste uno schema di lavoro per individuare e “neutralizzare” gli asintomatici; perchè non è stato ancora predisposto – causa burocrazia e dilettantismo – un sistema informatico capace di mappare la popolazione, le sue condizioni di salute e i suoi spostamenti e da cui far discendere una gestione intelligente del ritorno graduale e asimmetrico alla “normalità”.
Ma questa constatazione ci deve indurre a tre considerazioni. La prima è che a parità di condizioni organizzative, chiamiamole così, il ritardo nella “riapertura” – che ci costa qualcosa come 5 miliardi di pil al giorno – è un onere che si somma a quello della contabilità sanitaria, senza darci certezza che il passare del tempo la faccia azzerare. Possiamo immaginare di attendere all’infinito? Possiamo far trascorre il tempo del “distanziamento sociale” senza attrezzarci sia per il ritorno intelligente al “riavvicinamento sociale” che a prepararci ad un eventuale ritorno del virus prima che sia stato trovato il vaccino salvifico?
La seconda considerazione è che occorre fin d’ora che le menti più fini di cui l’Italia dispone – e tra queste c’è certamente uno studioso serio e acuto come Ricolfi – si mettano a lavorare per offrire al governo un quadro di opzioni relative sia alle modalità della ripartenza sia alla gestione del dopo. Per esempio, vogliamo dirci con chiarezza che – al contrario di quanto con grande leggerezza ha affermato il ministro Lamorgese – quest’anno il paese rinuncia alle ferie e agosto sarà un mese come tutti gli altri? Vogliamo dirci, magari per autonoma iniziativa delle confederazioni che rappresentano imprenditori e lavoratori, che per un certo periodo il sabato sarà lavorativo (nel solo secondo semestre malcontatisarebbero 25 giorni recuperati rispetto a quelli che ci ha mangiato il lockdown)? Terza e ultima considerazione: se invece di dividerci tra il partito “la salute prima di tutto” e quello “riapertura subito per salvare l’economia”, ci unissimo nel partito che chiede finalmente un paese attrezzato, moderno, civile, sarebbe molto meglio.
Diciamoci una volta per tutte e senza infingimenti che l’Italia ha bisogno di una drastica cura “ri-costituente”, di una radicale trasformazione di tutti i suoi apparati, centrali e periferici, pubblici e privati. Tanti anni fa questa newsletter – simbolicamente chiamata Terza Repubblica quando ancora la Seconda doveva nascere ma già se ne vedevano tutti i potenziali limiti – si mise alla testa di un movimento di opinione che ha chiesto la convocazione di una nuova Assemblea Costituente non solo come luogo in cui, a fianco ma senza reciproche interferenze con il Parlamento, si potesse riscrivere la nostra Carta costituzionale – senza la volontà di buttare a mare con leggerezza e per partito preso principi e strumenti ma senza neppure coltivare tabù e pregiudizi – ma anche come salutare momento di catarsi collettiva, di riscatto e rigenerazione, di ritrovata coesione e rinnovata volontà di trasformazione e crescita. Un voltar pagina, ma lontano dalla contaminazione del virus populista, peste anch’esso i cui effetti letali sono oggi visibili – anche agli occhi di chi finora non ha saputo o voluto vedere – proprio mentre il paese affronta in mutande l’emergenza sanitaria ed economica che incombe, rendendoci al tempo stesso il paese più vittima del coronavirus al mondo e quello con la peggiore economia in Occidente.
Va dunque ripreso in mano quel progetto, premessa per un rinascimento nazionale più complessivo. In questi giorni molti hanno evocato lo spirito del secondo dopoguerra, quello che ci ha consentito di diventare una Repubblica collocata nel contesto europeo, che ci ha permesso di avere una crescita impetuosa fino a renderci una delle maggiori potenze economiche mondiali, che ci ha dato la facoltà di migliorare in pochi decenni le nostre condizioni di vita fino a diventare “il paese della bella vita”. Quello chiamato “miracolo” non fu un colpo di fortuna, ma l’esito del combinato disposto tra tanta gente che si è rimboccata le maniche e una classe dirigente all’altezza della sfida. Ora se vogliamo ripetere quel “miracolo” dobbiamo dotarci degli stessi ingredienti di allora, con in più tanto coraggio e determinazione perchè rispetto a quanto successe dal 25 aprile 1945 in poi, i livelli di resistenza al cambiamento sono molto maggiori e la dialisi della classe dirigente molto più complicata.
In questi giorni tra chat e webinar che favoriscono la circolazioni di informazioni ponderate, analisi ricche di valore aggiunto e progetti pieni di futuro, molte teste pensanti e persone di buona volontà si sono messi a elaborare il “dopoguerra”. Negli anni Trenta, come ci ricorda il saggio Angelo De Mattia, il presidente americano Roosevelt promosse il New Deal avvalendosi del supporto di grandi esperti, economisti e giuristi in particolare, che nel loro insieme presero il nome di “brain trust”. Ecco, l’Italia ha bisogno che un trust di cervelli trovi posto a palazzo Chigi per scrivere le condizioni del nostro New Deal. Non c’è neanche un minuto da perdere.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.