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L'editoriale di TerzaRepubblica

Mario Draghi Commissario Straordinario UE

VIRUS, RECESSIONE, EUROPA: PER SALVARCI NOMINARE DRAGHI COMMISSARIO STRAORDINARIO UE

18 marzo 2020

A mali estremi, estremi rimedi. È ormai chiaro che il coronavirus, pur essendo di provenienza asiatica e pur avendo assunto i contorni di una pandemia planetaria, colpirà l’Europa più di ogni altra parte del mondo, se non dal punto di vista sanitario sicuramente circa l’entità delle sue ripercussioni economiche. Per il semplice motivo che qui risiede – per ragioni culturali e di radicamento della democrazia, per la diffusione del benessere e per la presenza del più alto livello di welfare pagato attraverso la fiscalità generale cui conseguono le maggiori aspettative di longevità – il più basso tasso di tolleranza verso la diffusione delle malattie mortali, cosa che spingerà i governi continentali a scelte dai costi, diretti e indiretti, enormi. Dunque, stando così le cose, io credo che l’Europa debba immediatamente adottare un piano straordinario di interventi, sia sul fronte dell’emergenza sanitaria che di quella economica, tali da surrogare o quantomeno integrare quelli nazionali già annunciati. E ne affidi la preparazione dei contenuti e la successiva gestione a Mario Draghi, cui va assegnato l’inedito ruolo di commissario straordinario, con un mandato che unisca la volontà della Commissione Ue e del Consiglio europeo, e quindi di tutte le cancellerie continentali.

 

Fin qui il maledetto virus Covid-19 non ha solo contagiato e fatto morire (o contribuito a far morire, agendo da concausa letale) migliaia di persone; non solo ha costretto e sta costringendo molti paesi a prendere misure di crescente limitazione delle libertà personali e di blocco delle attività e degli spostamenti; non solo ha fatto crollare tutti i mercati, da quelli azionari a quelli che registrano il prezzo del petrolio e delle altre materie prime; non solo ha posto le premesse per una recessione globale che vedrà il Vecchio Continente – già da tempo con una crescita lenta rispetto a quella di Cina, Usa e aree emergenti del mondo – come l’anello più debole della catena. No, sta anche minando la già fragile costruzione dell’Unione europea, giunta a questo inatteso appuntamento storico – che non azzopperà il percorso della globalizzazione, piuttosto lo cambierà rafforzandolo, bensì quello dell’integrazione europea, se non si reagirà immediatamente – indebolita nelle fondamenta da decenni di occasioni perdute, suggellate da un’unione monetaria resa incompleta dal permanere di politiche economiche e di bilancio nazionali separate e divergenti. Le crisi finanziarie del nuovo millennio – quella del 2008 importata dagli Stati Uniti, quella greca del 2009 e seguenti e quella italiana del 2011 – affrontate aumentando i debiti nazionali anziché attraverso la creazione di un debito federale, si sono poi incaricate di certificare la strutturalità dell’incompiutezza europea. Schermata, almeno un po’, dalla preziosa politica monetaria della Bce di Draghi, che ha sopperito alla mancanza di un governo federale e alle divergenze delle politiche nazionali con l’autorevolezza personale, concedendo ai governi dell’euroclub un tempo supplementare che purtroppo è stato in larga misura sprecato.

 

Sia chiaro, ciò di cui mi sto lamentando è la scarsità di Europa, non il suo eccesso di incombenza, come invece sostengono i sovranisti, nostrani e altrui. E la mia preoccupazione di oggi è che partendo da questa conclamata deficienza, l’Europa s’infranga contro gli scogli del Covid-19 e soprattutto dei suoi effetti socio-economici. O, cosa che per noi italiani sarebbe la stessa cosa, che s’infrangano le sue parti più deboli, Italia in testa, lasciate al loro destino dal nucleo più forte, quello nord-europeo a trazione tedesca. Scenario di cui abbiamo visto i contorni quando l’altro giorno la signora Lagarde ha detto – non casualmente – che non è compito della banca centrale occuparsi degli spread (ergo l’Italia si fotta). Cosa che, al di là di ciò che ha prodotto sui mercati (già in preda all’isteria), segnala il desiderio di regolare i conti una volta per tutte con chi si ritiene, a torto e a ragione, un peso morto che zavorra la parte sana (anche qui, a torto e a ragione) del medesimo condominio.

 

Certo, è consolante sapere che Angela Merkel si sia detta disponibile agli eurobond (mamma mia, come la rimpiangeremo quando sarà sostituita da qualche falco…) e che il capo del governo olandese, pur nicchiando, non li escluda. Ma non c’è tempo da perdere. Basta vedere l’entità abissalmente diversa degli impegni di spesa annunciati dai governi dei principali paesi continentali per fronteggiare il coronavirus e i suoi effetti – si va dalla Spagna che intende spendere il 20% del suo pil, a Germania e Regno Unito che sono sul 15% della loro ricchezza annua prodotta, per poi scendere al 12% della Francia e, udite udite, al 2% dell’Italia – per capire che se la scelta sarà quella delle risposte nazionali all’emergenza, magari con l’obiettivo politico-elettorale di nazionalizzare imprese decotte, il risultato sarà inevitabilmente la fine del mercato unico e dell’eurosistema. Ora, io sono convinto che nessun paese, Germania e Olanda comprese, non resisterebbe ad una simile onda d’urto, tanto più in una situazione come questa in cui gli equilibri geopolitici e geoeconomici del mondo saranno stravolti. Ma sarebbe comunque magra (e stupida) consolazione, visto che di sicuro a pagare il prezzo più alto di tutti sarebbe l’Italia, la cui economia – è bene ricordarlo e ribadirlo – prima dell’affacciarsi sulla scena del Covid-19 stava passando, unica in Europa, da una lunga e asfissiante fase di stagnazione all’ennesima recessione (la terza di questo secolo). Dunque, siamo noi i primi interessati – anche se i meno titolati in termini di credibilità, avendo mandato i sovranisti anti-euro al governo – a chiedere che l’Europa, spinta dall’emergenza, faccia il suo primo passo nella direzione di una gestione comune delle risorse (sommando ciò che i governi pensano di spendere separatamente si arriva a circa 2mila miliardi), emettendo titoli di un nuovo tipo di debito, quello federale, garantiti dalla Bce come “prestatore di ultima istanza”. Possono essere titoli con uno scopo specifico. Tipo i coronabond di cui si parla in queste ore, il cui ammontare dovrà essere speso in campo ospedaliero per omogenizzare i diversi sistemi sanitari nazionali (e chissà che sia la volta buona che noi torniamo ad averne uno e non 20 come è da quando abbiamo regionalizzato la sanità), nella ricerca del vaccino anti Covid-19 e nell’attrezzarci ad affrontare, anche in termini di cyber security, questa come le prossime guerre batteriologiche che ci toccherà combattere. Oppure titoli “per lo sviluppo”, intento per il quale possono essere usate le risorse del MES, il “fondo salva Stati” che così si trasformerebbe in “fondo salva Europa”, coordinando gli investimenti contro la recessione. In tutti i casi l’obiettivo sarebbe quello di dar vita ad una sorta di “New Deal europeo”.

 

Di questo dovrebbe prendere coscienza la classe dirigente (quindi non solo quella politica) italiana, che invece si attarda a disquisire sul Patto di Stabilità Ue, chiedendo di eliminarne i vincoli o comunque di poterli sforare senza neppure aver prima chiarito l’uso che si farebbe di quella flessibilità (che comunque ci hanno concesso), e soprattutto senza capire che se oggi i paesi del Nord si dovessero attestare sul superamento o addirittura sulla cancellazione del Patto di Stabilità, significherebbe la fine di ogni possibilità di dar vita ad una politica economica europea, tanto meno di tipo solidale. Ben sapendo, loro, che i vincoli dei mercati finanziari surrogherebbero quelli Ue (questo era il senso vero dell’infelice uscita della Lagarde). D’altra parte, mentre la montagna (il Governo italiano) partoriva – faticosamente – il topolino (il decreto cosiddetto “cura Italia”), tutte le analisi sull’entità delle ripercussioni economiche della pandemia si sono incaricate di dirci che noi chiuderemo il 2020 con -3,5% se va bene e un -5% se i tempi della quarantena produttiva e commerciale si dovessero allungare, fino a ipotizzare uno scenario catastrofico con -8%. Dunque, non ci resta che sperare nell’Europa.

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