Il virus globale per l'economia
DA PANDEMIA A GUERRA BATTERIOLOGICA? RISCHIO PER L’ECONOMIA ITALIANA E EUROPEA
13 febbraio 2020
Avrei voglia di ribellarmi, di gridare che così si salva (speriamo) un po’ di presente ma si ammazza il futuro di tutti, di reclamare che siano altri quelli nelle cui mani è riposta la vita del mio Paese in un momento così grave. Ma non lo faccio. Per rispetto dei morti, degli ammalati e di chi li cura, per la doverosa attenzione che merita la nostra apprensione collettiva, dentro la quale c’è tra l’altro anche la mia, per il senso di disciplina che in certe circostanze non ammette deroghe. Perché ci sono momenti nei quali anche gli spiriti liberi devono saper tacere. Dunque, contrariamente a quanto ho fatto nelle ultime due settimane, in cui non ho risparmiato critiche sui tempi e suoi modi delle decisioni del Governo e delle istituzioni locali, e sulla comunicazione delle medesime, bagnerò le polveri della mia combattività – non senza sforzo, ve lo confesso – e prenderò atto, al pari di quanto ho rigorosamente fatto nella mia vita privata e professionale, che così stanno le cose.
Detto questo, resta pur sempre necessario dare risposta ad alcuni drammatici interrogativi. Prima domanda: come è possibile che in tre mesi il Covid-19 si sia trasformato da influenza stagionale, con alcune complicazioni maggiori rispetto ai fenomeni precedenti, a primo caso di guerra batteriologica di portata globale – perché di questo si tratta, per come si sono messe le cose – salvo il fatto che non sia mai stata dichiarata, da nessuno contro nessun altro? E che cosa significa questa “guerra” sul piano geopolitico e della globalizzazione economica? Seconda domanda: può permettersi l’Europa di affrontare l’emergenza, sia quella sanitaria sia quella economica, divisa e senza alcun coordinamento, come ha fatto fin qui? Terza domanda: può un paese come l’Italia nel pieno di un inesorabile declino, concedersi il lusso di sottostimare le conseguenze del cadere in una recessione che sarà gravissima (temo che il 2020 sarà come il 2009, quando perdemmo 5,1 punti di pil)?
Andiamo con ordine. Al primo quesito, scartate le spiegazioni di tipo complottistico che pure spopolano sui social, può esserci una risposta scontata: la prima responsabilità è imputabile a chi avrebbe dovuto gestire la crisi, cioè alla macchina degli Stati, cui è fatto obbligo in circostanze come queste di agire con assertività e senza compromessi. A me sembra che la Cina, epicentro dell’epidemia ma anche prima nazione ad aver valicato il picco del contagio, l’abbia gestita alla grande, fatto salvo che non ha gli obblighi di una democrazia. Mentre mi è parsa come al solito lenta e non uniforme la reazione europea e irresponsabile quella americana, fermo restando che ancor più inquietante è il silenzio di Putin – i media russi trattano la vicenda Covid-19 come “notizia dal resto del mondo” – e di Erdogan, nonostante che la Turchia confini con l’Iran, terzo paese al mondo per decessi legati al Coronavirus, e che la porosità delle loro frontiere faccia pensare ad un facile contagio senza alcuna precauzione. Di questi paesi, così come dell’India, dove pure il primo decesso ricongiungibile al virus risale a fine gennaio, non è dato sapere se i loro sistemi sanitari siano sufficientemente attrezzati per gestire la crisi. Ma il quesito può trovare un’altra risposta, non necessariamente alternativa alla prima: mancano istituzioni sovranazionali all’altezza di un mondo globalizzato, dove anche i fenomeni sanitari, tanto più quelli epidemiologici, sono destinati a diventare planetari. Il fatto stesso che per l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci siano voluti mesi prima di dirci che si siamo di fronte ad una pandemia, quando in queste circostanze poco conta registrare i fatti già avvenuti e molto invece fare previsioni e indicare strategie comuni, la dice lunga su quanto sia grave che ad un mondo fortemente interconnesso manchino strumenti di governo altrettanto globali.
Insomma, deve esserci chiaro che il coronavirus metterà in discussione relazioni internazionali, rapporti negoziali, equilibri geopolitici e geoeconomici. E che in caso di emergenza se è facile chiudere una porta – nonostante Schengen, un blocco di frontiera si può rimettere – il difficile sarà riaprirla. Così, l’illusione sovranista che in Europa come negli Stati Uniti è parsa la panacea di tutti i mali di fronte all’impasse delle classi dirigenti tradizionali, mostra clamorosamente la corda: possono non esserci istituzioni sovranazionali all’altezza – e purtroppo non ci sono – ma i problemi sono e sempre più saranno globali, e come tali affrontati in contesti istituzionali dove si è applicato il federalismo verso l’alto, non viceversa. Basti pensare alla sanità italiana e ai limiti evidenti che la sua regionalizzazione ha creato. E basti pensare a quanto danno abbia creato in questa fase d’emergenza la mancanza di un sistema europeo di sanità, persino a livello di protocolli.
Dunque, quando questo maledetto virus sarà imbrigliato, le classi dirigenti di tutto il mondo avranno un enorme lavoro da fare. Io non credo che a uscirne sconfitta sarà la globalizzazione, come dicono e sperano coloro che da sempre la avversano, ma quei paesi che non saranno in grado di produrre risposte globali ai problemi che, come si è visto, sono locali solo in apparenza. Non è un caso che in queste ore buie – punteggiate da crolli senza precedenti di tutte le Borse mondiali, da una caduta delle quotazioni del petrolio tale da rimettere in discussione tutte le politiche energetiche “nuove” individuate in questi ultimi tempi di maggiore attenzione ai problemi ambientali – siano stati rispolverati, spesso anche a sproposito, strumenti epocali come il “piano Marshall” e momenti storici come Bretton Woods. Toccherà in qualche modo rieditarli, se vorremo risollevarci.
E qui veniamo al tema dell’Europa. Che se non si è rotta l’osso del collo nella crisi del 2008 e nelle sue propaggini – dal default della Grecia al caso Italia del 2011 – ora rischia che questa sia la volta buona. Non basterà che la Ue dia ai paesi membri la libertà di spendere di più, come ha saggiamente rilevato Giorgio La Malfa. Se non si vuole l’implosione dell’eurosistema – vuoi perché potrebbero andare fuori controllo i paesi già troppo indebitati come l’Italia, vuoi perché se la Germania davvero spendesse oltre 500 miliardi (venti volte lo stanziamento italiano!) in ottica esclusivamente nazionale, le attuali distanze tra i diversi iscritti al club, già fin troppo accentuate, diventerebbero incolmabili – occorre che l’Europa si assuma l’onere di raccogliere (lanciando finalmente gli eurobond) e poi di spendere direttamente le risorse dedicate sia all’adeguamento delle strutture sanitarie sia, soprattutto, al recupero dell’economia dall’abisso recessivo in cui è destinata a cadere. E questa volta sono i governi a dover compiere i passi decisivi, non è più tempo di scaricare sulla banca centrale la responsabilità di tirarci fuori dai guai. Anche perché il tema non è più, come fu nel 2008 o nel 2011, la liquidità e le risorse da mettere al servizio dei consumi, ma le politiche fiscali e industriali per aggiustare economie che questa volta cascano dal lato dell’offerta. E comunque alla Bce non c’è più Draghi e il suo “whatever it takes”, ma una sciovinista francese che alla sua prima prova del fuoco ha fatto un danno mostruoso in un momento in cui i mercati stavano già collassando per conto loro senza bisogno dell’improvvida uscita della signora Lagarde. Insomma, ci sarà da spendere una montagna di quattrini – anche facendo un po’ di inflazione, che dopo anni di deflazione male non farà – e se non sarà l’Europa a farlo usando diversamente le risorse proprie e quelle coperte dalle garanzie della Bce, con ciò avvitando i bulloni allentati della sua integrazione politica e istituzionale, è già fin d’ora pronosticabile una crisi strutturale dell’Unione e dell’euro.
Naturalmente, tutto questo vale a maggior ragione per noi, che in questi anni di politica monetaria accomodante abbiamo sprecato il tempo che la Bce ci ha regalato e le risorse che la Ue ci ha concesso in termini di flessibilità di bilancio (a mio giudizio insufficienti per quel che serviva, fin troppe per essere un paese ultra indebitato che sa fare solo spesa pubblica corrente improduttiva). Adesso sono stati stanziati – per ora sulla carta – 25 miliardi. Possono essere tanti o pochi, dipende da che uso se ne farà. E il fatto che finora la discussione sia stato solo sul quantum e sul diritto a sforare i parametri e non su cosa servirebbe fare e che costo avrebbe, depone male. Il fatto è che l’Italia era già con un piede e mezzo in recessione prima dell’emergenza sanitaria, e ora ci affonderà dentro. Di quanto, dipenderà dalla durata del lockdown: se arriveremo fino all’estate il disastro sarà di proporzioni bibliche, perché se è vero che rispetto al 2008 quando la crisi fu sistemica per effetto delle contraddizioni cresciute e non affrontate dentro il sistema capitalistico, questa è una crisi di tipo esogeno – per questo si usa la metafora del “cigno nero” – per cui al termine del problema sanitario ci dovrebbe essere una rapida rinormalizzazione, è altrettanto vero che le economie in declino per ragioni strutturali proprie avranno gli effetti moltiplicati durante la crisi e i tempi di recupero dilatati al suo termine. Dunque, l’errore più grave che potremo commettere sarà quello di spendere solo per tamponare gli effetti più visibili del blocco dell’Italia sia dal lato delle imprese – attività commerciali, turismo, partite Iva, ecc. – sia da quello dei lavoratori e delle famiglie. Mentre questa dovrà essere l’occasione per sistemare le falle, come per esempio l’intera infrastrutturazione del Paese, e per modernizzare il vecchio, come per esempio digitalizzare ciò che ancora è analogico, a cominciare dalla pubblica amministrazione. C’è questa consapevolezza? Ci sarà questa lungimiranza? Purtroppo non se ne vede neppure l’ombra. E non è questione di maggioranza e di opposizione, visto che sia per le esperienze di governo trascorse, sia per quanto è dato vedere e sentire in queste ore difficili, non è certo da chi sta fuori dal perimetro di governo che vengono analisi intelligenti e proposte originali a fronte del pressapochismo di chi ci è dentro. E ciò rende fragili, per non dire inutili, le varie ipotesi di “grandi coalizioni” e di “governi di salute pubblica” di cui si parla in questi giorni, probabilmente più per esorcizzare una crisi del sistema democratico che per convinzione. Ma di questo rischio parleremo la prossima volta. Per ora buon proseguimento agli “arresti” domiciliari, con la speranza che finiscano presto e che si possa subito tornare a lavorare.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.