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L'editoriale di TerzaRepubblica

Basta governi a 5stelle

EMERGENZE NAZIONALI E FINE DEGLI EQUILIBRI MONDIALI È IL MOMENTO DI CHIUDERE L'ESPERIENZA DEI GOVERNI A 5STELLE

10 gennaio 2020

La situazione è gravissima, dunque il governo si dimetta e si vada subito alle elezioni. La situazione è gravissima, dunque è assolutamente inopportuno che si apra una crisi di governo ora. Le opposte conclusioni cui si può giungere nell’osservare con sgomento il concatenarsi dell’assoluta inconsistenza dell’Italia nello scenario mediorientale che fa temere lo scatenarsi di una guerra su scala mondiale, e della totale impotenza mostrata dal governo di fronte ad una serie di gravi emergenze interne, sono entrambe pienamente ragionevoli. Sarebbe saggio smettere di restare aggrappati ad un esecutivo che non ha né la consistenza dei governi politici né la competenza di quelli tecnici. Ma non di meno sarebbe prudente evitare una crisi che porterebbe ad elezioni proprio mentre soffiano venti di guerra a poche miglia di mare dai nostri confini. È questo il drammatico busillis di fronte al quale ci ritroviamo, e non è di buon auspicio per l’anno e il decennio che si sono appena aperti.

Comunque, che s’imbocchi l’una o l’altra strada, due cose sono certe: non regge più la tattica del rinvio, la logica della sopravvivenza perseguita agitando la chimera della ridefinizione – come se a suo tempo fossero stati definiti – dell’agenda e del metodo di governo; non è credibile riproporre come primo ed essenziale motivo di esistenza dell’alleanza tra 5stelle e sinistra l’essere diga rispetto al dilagare della Lega di Salvini, perché non è né sufficiente né utile a esorcizzare l’arrivo della destra a Palazzo Chigi. E tanto dovrebbe essere bastante per indurre il Pd a staccare la spina. O almeno, a predisporsi a farlo. Perché se non stupisce affatto vedere il flemmatico Giuseppe Conte prodursi in dichiarazioni di stile forlaniano e praticare la mediazione permanente fine a se stessa come strumento di governo, viceversa non si capisce cosa spettino i democratici a ribellarsi al dilettantismo e alle follie dei grillini, la cui crisi finisce inevitabilmente per accentuarne i difetti. Francamente, i dirigenti del Pd sono troppo scafati per poter cadere nell’errore in cui vediamo incorrere larga parte della stampa e degli opinionisti: credere che la caduta del consenso del movimento 5stelle sia dovuta, come si tende ad accreditare, al loro progressivo distaccarsi dal dna primigenio, al trasformarsi in partito, e che basterebbe indurli e aiutarli a ritornare alle origini per rinsaldare maggioranza e governo. La spiegazione davvero non regge: è l’impatto con le responsabilità di governo e la complessità dei problemi che si è incaricato di dimostrare come l’anima populista e semplificatoria dei pentastellati, così come la loro organizzazione padronale e verticistica che non si è affatto trasformata (purtroppo) in un partito a governance democratica, sia merce avariata. Il dilettantismo dei loro esponenti di vertice non è semplice mancanza di esperienza, ma l’inevitabile risultante del loro spirito costituente, quello del “uno vale uno” e del rovesciamento della piramide per cui la base diventa vertice senza alcuna selezione della classe dirigente. Insomma, i grillini non sono “compagni che sbagliano”, per dirla con un vecchio slogan di quella sinistra cresciuta nel mito del “pas d’ennemis à gauche”, o ufo da irretire e irreggimentare, ma populisti politicamente infrequentabili e persino contagiosi (stante le scarse difese immunitarie dei democrat).

Certo, è vero, anche noi l’anno scorso salutammo il passaggio dal Conte1 al Conte2 come un male minore rispetto alle elezioni anticipate. Ma, come già scrivemmo in autunno, quei vantaggi si sono subito esauriti, l’effetto positivo di un governo non in contrasto preventivo e ideologico con l’Europa è andato scemando con la manifesta incapacità del governo di saper approfittare di questo punto di forza, e il programma dell’esecutivo si è fermato ad una manovra di bilancio che si accontenta di non fare soverchi danni. Troppo poco. Tanto più se questo poco si confronta con i tanti problemi irrisolti se non aggravati dal governo – dal disastro dell’Ilva, reso ancor più grave dalla rilettura della vicenda che l’assoluzione processuale di Fabio Riva impone, al perpetuarsi dell’agonia di Alitalia, per non parlare della sciagurata gestione della questione relativa alle concessioni autostradali – e con certe pericolose inclinazioni che si sono viste in campo. Ci riferiamo sia alla nefasta tendenza a pensare di risolvere tutti i problemi economici con un vasto programma di “nazionalizzazioni & espropri”, che peraltro ha radici più nazional-corporative che di radicalismo di sinistra, sia all’esiziale desiderio di lisciare il pelo al giustizialismo diffuso nella società con provvedimenti capaci di radere al suolo quel che rimane (poco) dello Stato di diritto come l’abolizione della prescrizione.

Ma se tutto questo era sul tavolo già nei mesi scorsi, e poteva bastare a rendere chiara la necessità di porre fine al galleggiamento, ora è il sopraggiungere dell’emergenza internazionale a fare la differenza. E non solo per l’intrinseca drammaticità della situazione iraniana e libica, cui si aggiunge il nostro autolesionismo che la rende ancor più grave per l’Italia, ma per il fatto che la crisi nel Mediterraneo è al tempo stesso causa ed effetto di cambiamenti epocali che sono in corso nello scenario geopolitico mondiale, destinati a cambiare anche il nostro destino. Si può affrontare la crisi libica, decisiva per le forniture di petrolio e per gli interessi nazionali espressi dall’Eni oltre che per la regolazione o meno dei flussi migratori che prima di tutto riguardano le nostre coste, con un governo di principianti? E che per di più hanno l’arroganza di giocare agli statisti e buttano nel water la loro già esigua credibilità pretendendo di saper gestire l’incontro tra i diversi leader libici in guerra tra loro come se Palazzo Chigi fosse Camp David e il presidente Conte fosse Jimmy Carter che mette d’accordo dopo 12 giorni di estenuanti trattative l’egiziano Anwar al-Sadat e l’israeliano Menachem Begin, o Bill Clinton che fa stringere le mani del primo ministro di Israele Ehud Barak e del leader palestinese Yasser Arafat? Si può tollerare che sul nostro più importante dossier internazionale (Libia) e laddove la presenza militare italiana è così massiccia da rappresentare il secondo contingente dopo quello americano su 70 paesi presenti (Iraq) si registri la nostra più assoluta irrilevanza politico-diplomatica? Tanto più se si tratta di teatri dove un tempo l’Italia ha recitato ruoli da prim’attore. Ma, ancor di più, non è pensabile che il lavoro da fare in Europa per indurla ad essere, anche militarmente, soggetto attivo in uno scenario dominato dalla somma di gravi pericoli – l’imprevedibilità di Trump che è manifestatamente contro l’Unione Europea e determina di fatto una riscrittura delle funzioni della Nato e dei suoi equilibri interni, la tendenza egemonica di Putin, la prepotenza di Erdogan e la pervasività della Cina – possa essere affidato a forze politiche e uomini screditati o comunque totalmente privi di autorevolezza. La reazione, tra il disperato e l’arrabbiato, che abbiamo potuto direttamente verificare si è manifestata e si sta manifestando nel mondo della nostra diplomazia e più in generale tra gli alti dirigenti dello Stato, che forse finora hanno (colpevolmente) osservato in silenzio il degrado della politica e delle istituzioni ma che adesso non ne possono più, ci dice che è davvero venuto il momento di voltare pagina senza più alcuna esitazione.

In questo quadro, l’idea che il Pd possa continuare a recitare la parte del “garante della stabilità”, quando proprio la continuità è divenuta un disvalore, per il solo fatto che si dia per scontato che interrompendo lo status quo si favorisce la destra, ineluttabilmente destinata a vincere le elezioni che seguirebbero la crisi di governo e sancirebbero la fine della legislatura, diventa non solo sbagliata per il Paese, ma anche autolesionistica per il partito guidato da Zingaretti. Viceversa, anziché inseguire come gatti affamati (ma stolti) l’odore delle “sardine”, cioè di una piazza che non può – né forse nemmeno pretende – di offrire soluzioni complesse a problemi complessi e uomini e donne all’altezza delle sfide, i piddini farebbero meglio a domandarsi se non sia per loro indispensabile, per battere Salvini e la Meloni, avere al loro fianco una o più forze capaci di raccogliere il consenso di quei moderati che hanno di fronte l’alternativa tra l’astensione, il voto inutile a Forza Italia e quello dato, di malavoglia ma giocoforza se il Pd rimane quello che è, a Lega o Fratelli d’Italia. E di conseguenza porsi il problema di come concretamente aiutare a far nascere aggregazioni e nuovi soggetti (magari con antichi e gloriosi simboli) che possano asciugare i consensi – già ora in lento ma significativo regresso – a Salvini creando le condizioni per un centro-sinistra moderno.

Il “terrore delle urne” è ormai la frontiera dei pavidi. E dei perdenti.

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