Tragicomica crisi d'estate
LE VIE D’USCITA ALLA TRAGICOMICA CRISI CHE DISARCIONA QUELLO DEI “PIENI POTERI” E RILANCIA PERDENTI E ROTTAMATI
16 agosto 2019
“Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente”. Alla celebre frase di Mao Tse-Tung manca un “tutt’altro che” per adattarsi pienamente alla situazione politica italiana. Infatti, che la confusione sia massima non c’è alcun dubbio, e lo si capisce dal fatto che in pochi giorni non solo il Grande Condottiero (Matteo 1), che sembrava invincibile e destinato ad assumere i “pieni poteri”, è maldestramente caduto da cavallo e che il Grande Perdente (Matteo 2) si è inaspettatamente rimesso in gioco, ma soprattutto che ora la tragicomica partita ferragostana che si sta giocando è tutta nelle mani – udite udite – del Grande Rottamato (Silvio). E sì, cari amici di TerzaRepubblica, ci è toccato – per nostra e vostra disgrazia – tornare precipitosamente dalle vacanze per seguire questa crisi senza precedenti e senza logica. Ci eravamo lasciati a fine luglio prendendo atto che gli abbai della crisi erano in realtà dei belati, e che gli italiani potevano partire per le ferie tranquilli che in agosto non sarebbe successo nulla, salvo la solita cagnara dagli arenili buona per i social e qualche giornale scandalistico. Invece.
Invece il dilettantismo di chi si crede (credeva?) il più furbo di tutti ha messo in moto una gigantesca pantomima di cui ancor oggi non s’intravede affatto la possibile conclusione (e non è detto che le cose saranno più chiare il 20 agosto, quando il presidente Conte dirà la sua e il Parlamento). Dunque, per quanto tra noi – e, crediamo, anche tra voi – e la politica odierna manchi una comune grammatica, anche minima, che consenta di capire e di essere capiti (ammesso che ci leggano), prima di tutto cerchiamo di decrittare ciò che è successo, per poi tentare, per quanto possibile, di azzardare un pronostico per quello che potrà accadere, e soprattutto formulare un auspicio.
Tutto ha inizio da un errore esiziale di Salvini. Sono i giorni successivi alle elezioni europee del 26 maggio. Il leader della Lega sbaglia due volte. La prima quando ritiene di aver vinto, senza capire che invece in Europa le cose sono andate in modo diametralmente opposto a quanto lui voleva e pronosticava: il voto sanciva il suo isolamento (e, cosa ben più grave, quello dell’Italia) e la sua marginalità politica. Il secondo errore era quello di non capitalizzare subito sul piano interno il grande consenso nazionale che, quello sì, era riuscito a conquistare. Il suo Gianni Letta (inascoltato, al contrario di quanto faceva Berlusconi con l’originale), Giancarlo Giorgetti, glielo ha detto e ridetto in tutte le lingue di aprire la crisi, sulla base del fatto che i rapporti di forza erano cambiati rispetto a quelli, formalmente inalterati, fissati in Parlamento dal voto del marzo 2018. Nessuno avrebbe avuto nulla da ridire, a cominciare dal Capo dello Stato. Noi stessi dedicammo una nostra newsletter, quella del 12 luglio (che potete trovare QUI) ai “tempi sbagliati” di Salvini, sottolineando che in politica azzeccare il tempo giusto è fondamentale. La crisi e le elezioni anticipate a tempo debito – cioè per andare al voto ai primi di settembre, in modo da non ostacolare la sessione di bilancio autunnale e far del male al Paese – sarebbero state utili per mettere fine alla disastrosa esperienza del governo nazional-populista e centrare il primo degli obiettivi che, giocoforza, avevamo assegnato a questa legislatura, archiviare o quantomeno ridimensionare i 5stelle, con i loro No a tutto, le loro pulsioni per la decrescita (in)felice, il loro insopportabile dilettantismo e la loro visione distorta della democrazia e della giustizia.
Ma lui niente, ha preferito tradurre quel credito politico in un crescendo di forzature, beandosi delle esibizioni muscolari che andava facendo. Salvo poi aprire la crisi l’8 agosto, sulla base di una motivazione risibile – non si doveva certo attendere la spaccatura in sede parlamentare per scoprire la differente posizione tra 5stelle e Lega sulla Tav – e nella presunzione che gli sarebbe bastato fischiare lui la fine del gioco per decretarla. Ed accorgersi ben presto che le cose non stavano come la sua infantile arroganza gli aveva fatto supporre. A cominciare dall’atteggiamento di Conte, che Salvini immaginava si sarebbe docilmente dimesso e che invece l’ha sfidato con un “sfiduciami” che a molti ha ricordato l’ormai preistorico “che fai, mi cacci?” di Fini a Berlusconi. E poi, via, che incongruenza passare per un voto di sfiducia dopo che Salvini stesso ne aveva chiesto e ottenuto uno di fiducia (sul decreto “sicurezza bis”) appena qualche giorno prima. E che ingenuità non preoccuparsi di creare le condizioni perché fosse il governo Conte a gestire le elezioni anticipate e la nomina del commissario in Europa – sarebbero bastate le sue contestuali dimissioni da ministro dell’Interno per evitare il conflitto d’interessi che gli è stato giustamente rinfacciato – e impedire così la possibile nascita di una maggioranza diversa da quella pentaleghista.
Ecco perché oggi il leader della Lega appare come il tizio che ha vinto la lotteria e poi ha clamorosamente smarrito il biglietto. Anche perché quello dei modi e dei tempi della crisi non è stato il suo unico errore. In un colpo solo ha rianimato l’esangue Berlusconi – costringendosi a chiedergli copertura in Parlamento e mettendosi nella condizione di dover dire sì o no alle sue richieste per la rinascita del centrodestra, che ora Salvini crede sia un male necessario per vincere le elezioni (ammesso che ci siano) quando fino a ieri ostentava la convinzione di poter fare da solo – e ha resuscitato il desaparecido Renzi, cui ha dato modo di dimostrare che a parità di spregiudicatezza, quanto a intelligenza tattica vince lui (pur non mancandogli un ricco medagliere di sciocchezze combinate). E ha persino regalato munizioni al povero Di Maio, ormai rassegnato a cercarsi un lavoro, con quel colpo di teatro sul taglio del numero dei parlamentari che si è rivelato un flop, perché è evidente anche a chi non abbia la pur minima nozione di diritto costituzionale (è il caso di entrambi) come non sia possibile varare e poi ignorare fino alla fine della prossima legislatura una tale modifica della Costituzione, non fosse altro per il referendum che genera, il cui esito se dovesse essere confermativo significherebbe che gli elettori vogliono un Parlamento diverso da quello che avrebbero appena eletto con il vecchio sistema, talché sarebbe logico tornare subito a (ri)votare, bloccando il Paese per mesi e mesi.
Detto tutto questo, ora che potrà succedere? Fermo restando che, visto il contesto, l’1-2-X è d’obbligo, ci pare siano possibili tre scenari principali, più alcuni altri subordinati. Primo: Conte in Parlamento si orienta in modalità “non è successo niente di irreparabile, ricompattiamoci che il Paese ha bisogno di noi” – che peraltro è nel suo dna – e Salvini, che nel frattempo se l’è vista brutta (persino il suo amico Vittorio Feltri gli ha dato del pirla), gli risponde “qua la zampa” e facciamo tutti finta che abbiamo scherzato. Di Maio non starebbe nella pelle, e forse anche i mal di pancia interni ai 5stelle, con una dose massiccia di Imodium, finirebbero per rientrare. Anche perché a quel punto andrebbe in porto la epocale (sic) riforma del numero dei parlamentari (salvo referendum, che ci auguriamo bocci la riforma) e i grillini se ne intesterebbero il merito. Può sembrare assurdo che l’esito della crisi sia questo inguardabile rimpannucciamento, ma in fondo se ci pensate nessuno fin qui l’ha trasformata da crisi politica a formale crisi di governo, nemmeno colui che l’ha aperta e che inspiegabilmente (le ragioni addotte sono risibili) non l’ha resa irreversibile attraverso le dimissioni sue e dei ministri leghisti.
Secondo scenario: la crisi si formalizza, ma al presidente della Repubblica, che ha l’obbligo di verificare se ci sono nuove possibili alleanze prima di sciogliere le Camere, viene presentata un’ipotesi alternativa, che con piena legittimità si cerca di cristallizzare attraverso un voto parlamentare, dandole una prospettiva di completamento della legislatura. Qui le ipotesi sono quattro. Una è che trovino uno straccio di intesa Pd e 5stelle; l’altra, una subordinata della precedente, è quella partorita dal cinismo togliattiano di Giuliano Ferrara, ovvero un monocolore Conte-5stelle con l’appoggio esterno del Pd (o di quel che ne resterebbe); l’altra ancora prevede lo schema “tutti contro Salvini” (e la Meloni, se non si sottrae); l’ultima presuppone che si formi un “fronte europeista” con il coinvolgimento anche di Forza Italia, oltre che di Pd e M5S.
Inutile dire che la più probabile (o meno improbabile) è la prima, utile suggerire che la migliore sarebbe la più complicata, l’ultima, e che Berlusconi farebbe bene ad ascoltare Gianni Letta che gliela caldeggia, non fosse altro perché lo metterebbe nella condizione di invertire a suo favore l’attuale deflusso di parlamentari da Forza Italia verso la Lega. Sarebbe una “coalizione Ursula”, cioè formata dall’insieme delle forze italiane che hanno votato a favore della Von der Leyen quale presidente della Commissione Ue, che non è un collante da poco visto che Bruxelles per noi è certamente più cruciale di qualunque altra componente di questo maledetto puzzle. Inoltre un accordo del genere – ben diverso dall’ammucchiata anti-Salvini, che finirebbe per regalargli voti – aiuterebbe la componente riformista del Pd a resistere alle forzature demagogiche e grilline che Renzi, da buon populista, si è già predisposto ad accettare, e avrebbe in Marco Minniti il presidente del Consiglio ideale. Certo, il Cavaliere dovrebbe accettare la sinistra (ma aveva già fatto il patto del Nazareno…) e i grillini, che considera ancor peggio, così come Pd e 5stelle, oltre che tra di loro, dovrebbero baciare il rospo Berlusconi. Ma diteci voi se in questa situazione, dove tutti hanno creato conventio ad excludendum per tutti, c’è qualche possibile combinazione “naturale”. Neppure il cosiddetto centro-destra, visto che a dividere Salvini, Berlusconi e Meloni c’è non solo la collocazione nel Parlamento europeo (sono in tre gruppi diversi, ma è il meno) quanto soprattutto la dicotomia “sovranismo-europeismo”, una discriminante che è, e dovrebbe essere considerata, assoluta. In questo senso il fondatore di Forza Italia farebbe bene a riflettere sulle parole usate da Salvini in un’intervista di un paio di giorni fa (“è ancora troppo presto per fare un patto con Berlusconi”) e dare ascolto alle sagge parole di un vecchio democristiano come Gianfranco Rotondi, l’unico tra i suoi fedelissimi che ha avuto il coraggio di dire che il centro-destra non esiste più.
Terzo scenario: la crisi del governo Conte si formalizza e le forze politiche non riescono ad offrire a Mattarella alcuna alternativa, rendendo inevitabile lo scioglimento delle Camere. In questo caso ci sono almeno due varianti di tempo e tre di modo. Si può cioè andare a votare entro la fine di ottobre, oppure scavallare l’anno e andarci a febbraio. Inutile dire che tra le due ipotesi c’è di mezzo la legge di bilancio e la possibilità (nel primo caso) di dover ricorrere all’esercizio provvisorio, procedura con la quale sarebbe assai difficile evitare l’aumento dell’Iva che tutti dicono di voler scongiurare. E queste due diverse tempistiche incrociano a loro volta tre possibili modalità con cui andare al voto. Le prime due sono quelle compatibili con le elezioni subito: con il governo uscente (senza Salvini agli Interni, che andrebbero ad interim a Conte); con un governo tecnico, quasi certamente presieduto dallo stesso Conte, con il solo scopo di disbrigare le procedure elettorali. La terza è invece quella utile per il voto all’inizio del 2020: un governo di transizione, probabilmente presieduto da Tria, che abbia lo scopo di fare la legge di bilancio ed evitare l’esercizio provvisorio, per poi andare subito dopo alle elezioni. Ovvio, che nell’ambito dello scenario “urne inevitabili”, l’ultima ipotesi sarebbe la meno dannosa per gli interessi del Paese.
Cosa accadrà lo vedremo, e già che siamo tornati dalle vacanze lo esamineremo insieme. Cioè che auspichiamo non può che limitarsi ad essere, nella situazione data, il male minore. Il che significa avere a mente almeno tre limiti invalicabili: evitare che la prossima manovra di bilancio diventi una Caporetto per la nostra economia e per i rapporti con la Ue; evitare che sia messa in discussione la collocazione internazionale, e quindi prima di tutto europea, dell’Italia, contro ogni tentazione nazionalista o, peggio, di uso del nostro Paese come strumento di potenze lontane e non certamente amiche; evitare che la nostra democrazia, già diventata “popolocrazia” secondo l’indovinata definizione di Ilvo Diamanti e Marc Lazar nell’omonimo libro di Laterza, scivoli verso una deriva plebiscitaria, avendo a mente ciò che Giulio Andreotti rispose a chi gli domandava cosa avrebbe fatto se avesse avuto pieni poteri: “sicuramente delle sciocchezze”.
Buon proseguimento di estate, se potete.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.