Scelta elettorale
EUROPA DA RAFFORZARE E DERIVA ITALIANA DA EVITARE: ECCO TUTTE LE RISPOSTE AL DILEMMA DELLA SCELTA ELETTORALE
24 maggio 2019
Finalmente. Dopo una campagna elettorale senza precedenti, tanto estenuante – di fatto è iniziata dal primo di gennaio, terminata l’approvazione della manovra di bilancio – quanto sanguinosa e insulsa, si va alle urne. Sarebbe un voto per l’Europa, ma si è parlato solo di questioni di bottega, e di conseguenza gli elettori saranno portati a fare scelte prevalentemente, se non solo, in chiave interna. Non è certo una novità, questa – abbiamo sempre autolesionisticamente fatto così – con la differenza che questa volta siamo di fronte alle più importanti elezioni della storia del parlamento comunitario, che richiederebbero ben altra consapevolezza. Infatti, in gioco ci sono l’Europa, l’euro, la Bce, l’eurosistema. E il ruolo dell’Italia, oggi isolata, come mai prima, nel contesto continentale, che deve scegliere tra l’atrofizzazione, che il nazionalismo sovranista comporta, e il tentativo di aprire una nuova stagione rinascimentale, cosa impossibile senza l’integrazione nel contesto europeo.
Tuttavia, è pur vero che il responso popolare del 26 maggio è destinato a produrre conseguenze decisive anche sui nostri equilibri politici nazionali, che dopo 12 mesi di governo a trazione populista si trovano davanti al bivio tra dare continuità a questa esperienza o cambiare decisamente registro. Non c’è da scandalizzarsi di questo: in ogni paese il voto europeo ha riflessi politici interni, più o meno rilevanti. Per esempio, accadrà in Austria, alla luce dello scandalo che ha portato alle dimissioni dei ministri del partito dell’ultradestra Fpoe, ed è già accaduto a Londra, dove 24 ore dopo il voto per il parlamento europeo (si è votato giovedì 23) si è dimessa la premier Theresa May esprimendo il rammarico per non essere riuscita ad attuare la Brexit. L’anomalia italiana sarebbe, però, se gli elettori si facessero influenzare dalla campagna elettorale e compissero le loro scelte guardando solo ed esclusivamente alle questioni nazionali. Cioè, per capirci, senza sapere o non tenendo conto della collocazione dei partiti italiani nelle diverse famiglie politiche europee e, di conseguenza, senza porsi la domanda se la loro preferenza potrà favorire il fatto che l’Italia risulti sintonica con gli altri paesi, specie quelli più grandi e fondatori della Ue, o se, al contrario, potrebbe accentuarne l’attuale isolamento. Per esempio, autorevoli previsioni ipotizzano che nel prossimo parlamento di Strasburgo i due gruppi facenti capo a 5stelle e Lega sommati insieme non dovrebbero superare un sesto dei 751 seggi totali, consacrando così – se nel frattempo il governo Conte non dovesse cadere o se comunque la maggioranza dovesse rimanere quella pentaleghista attuale – l’assoluta marginalizzazione dell’Italia nel contesto comunitario.
E qui siamo all’ineludibile domanda sul “che fare” domenica 26 maggio. Sono tantissimi quelli che in questi ultimi giorni ce l’hanno posto, questo benedetto quesito, manifestando non solo incertezza ma anche un vero e proprio senso di smarrimento. Molti di più di quanti lo avevano fatto in circostanze analoghe nel passato. A testimonianza che alla vigilia del voto c’è ancora un numero straordinariamente alto di cittadini che brancolano nel buio. Non spetta a noi di TerzaRepubblica dare una specifica indicazione di voto. Ma provare a fare qualche valutazione che aiuti a compiere una scelta consapevole, questo sì, fa parte del nostro dna.
Partiamo da un paio di presupposti, scontati ma che è bene ribadire. Il primo riguarda l’Europa: chi ci legge e ci conosce sa che di fronte al trilemma “più Europa”, “meno o niente Europa” e “tanta Europa quanta già ce n’è, ne più ne meno”, noi siamo senza incertezze per la prima delle tre opzioni. Anzi, per essere precisi, siamo a favore della realizzazione degli Stati Uniti d’Europa. E dunque, siamo per tutte quelle forme di progressiva integrazione politica, economica e istituzionale che portino all’obiettivo di una governance continentale sul modello United States of America. Il secondo attiene all’Italia: il giudizio sull’alleanza nazional-populista che è al governo da un anno, sulle scelte che ha fatto e i risultati che ha conseguito, è stato ed è nettamente negativo. E non perché consideriamo innaturale che 5stelle e Lega si siano alleati, e dunque giudichiamo il loro litigare la dimostrazione della loro incompatibilità. Anzi, siamo stati buoni profeti quando, già prima del voto del marzo 2018, dicemmo che i due populismi si sarebbero fatalmente incontrati e che la comune tendenza sovranista avrebbe saldato il patto. No, è proprio per la natura stessa dei grillini e della leadership salviniana della Lega (il partito in quanto tale è un’altra cosa) che abbiamo preconizzato che quella saldatura avrebbe procurato danni gravi al Paese, ed è per ciò che è stato fatto e, ancor più, per ciò che si è mancato di fare in questo anno di governo, che abbiamo confermato vieppiù il nostro giudizio iniziale. Nello stesso tempo, non abbiamo mai mancato di sottolineare come il voto dato in maniera così significativa alle politiche e le conseguenze che poi si sono prodotte in Parlamento, avevano un’unica causa: il fallimento di chi li aveva preceduti. Segnatamente Renzi e Berlusconi.
Con queste premesse, non si può che arrivare ad una conclusione: l’unico votabile è quello che noi di TerzaRepubblica abbiamo definito “il partito che non c’è”, fatto dei tanti italiani “non allineati”, spesso “astensionisti consapevoli”, che non vogliono abbandonarsi alla logica del “tanto peggio, tanto meglio”, che non si illudono di fronte alle facili soluzioni, alle narrazioni da social, alle semplificazioni mediatiche. Una forza liberaldemocratica, riformatrice, europeista, laica ma non laicista, centrale nella geografica politica, non perché centrista, ma perché strategica, capace, collocandosi al centro dello scacchiere politico, di scompaginarlo, imponendo nuove regole e nuove istituzioni. Ma questa forza che avrebbe dovuto e potuto raccogliere i tanti moderati e riformisti che si sentono privi di rappresentanza, un esercito di italiani così vasto da renderla potenzialmente il partito di maggioranza relativa, sulla scheda non la troveremo. E dunque? Di fronte a questa amara constatazione, o si decide di restare a casa o si sceglie cercando disperatamente il male minore. La prima opzione è del tutto legittima, e noi stessi l’abbiamo più volte praticata, ma sinceramente in questa circostanza sconsigliamo, a noi prima ancora che a voi, di adottarla. Troppo decisive, queste elezioni, per permetterci il lusso di quella coerenza.
Allora, non ci rimane che esaminare lo spettro delle possibili scelte di voto. Se si è d’accordo con le premesse qui svolte e più in generali con le analisi che TerzaRepubblica ha fatto nel corso del tempo, sembra inevitabile arrivare ad una prima conclusione: scartare il voto a chi sta al governo, e che tra l’altro sarebbe in posizione marginale in Europa. Né accontentarsi dell’idea che il rapporto di forze tra 5stelle e Lega si rovesci rispetto all’anno scorso. Rimangono gli altri. Tolte le diverse opzioni più estreme – che non appartengono alla nostra cultura – rimangono tre scelte possibili. Una è quella di +Europa, la formazione di Bonino, Della Vedova e Tabacci, cui si è aggregato il gruppo dei sindaci indipendenti capitanato dal primo cittadino di Parma, Pizzarotti. Anche perché aderisce all’Alde, il raggruppamento dei liberaldemocratici europei cui si è aggregato anche Macron, avrebbe indubbiamente il vantaggio di soddisfare il bisogno di coerenza. Ma, nello stesso tempo, lo svantaggio di rappresentare più una scelta di testimonianza che di reale incidenza. E non dipende solo, pur se anche, dal superamento o meno della soglia del 4%, sotto la quale non ci sarebbe rappresentanza. Quale tasso di utilità si pretende renda il proprio voto? A seconda della risposta, ci si può orientare per +Europa o per una delle due altre scelte, Forza Italia e il Pd, che ci rimangono, e per le quali in entrambi i casi occorre disporre di molte mani con cui turarsi il naso e tutti gli altri orifizi.
Forza Italia è ormai al tramonto, così come lo è inevitabilmente – e non solo per ragioni anagrafiche – il suo fondatore. In più, Berlusconi ha commesso due gravi errori: recitare la parte del coniuge di Salvini, tradito ma pronto, anzi smanioso, di perdonarlo, anziché distinguersene e uscire dalla vecchia logica del centro-destra; proporre che il Ppe, dopo le elezioni, faccia un accordo con i sovranisti, cosa che la Merkel e tutti i popolari, tedeschi e non, hanno seccamente respinto. Votare il Cavaliere è dunque un modo per riequilibrare i pesi con Salvini, ma solo fino a un certo punto.
Il Pd formato Zingaretti ha forse chiuso definitivamente la stagione renziana, ma non ha risolto le sue ataviche contraddizioni. Certo, parte dal 18% delle politiche e può tentare di contendere a Di Maio la seconda piazza – in questo irrobustendo la componente “utilità” del voto – ma non si può non porsi il dubbio, più che fondato purtroppo, che sia pronto a mettersi con i 5stelle non appena ce ne fossero le condizioni. Votare il Pd è dunque un modo per ridurre il peso dei grillini, ma è alto il rischio che poi ci scenda a patti.
Come si vede è forte la rabbia di non poter votare il “partito che non c’è”, perché tutte le scelte alternative su cui abbiamo ragionato hanno qualche pro e molti contro. Ma a metterli sul piatto della bilancia e a pesarli, ora, è compito vostro, cari lettori-elettori. Buon voto (si fa per dire).
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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