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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Ricambio senza cambiamento

GIUSTIZIA ED ECONOMIA FARANNO PIAZZA PULITA DELLA POLITICA DEL “CAMBIAMENTO” 

10 maggio 2019

La politica, da che mondo è mondo, ha una dimensione virtuale e una reale. Mai come in questo momento storico, e mai come oggi in Italia, la prima ha preso il sopravvento e schiacciato la seconda. Basta scorrere i giornali degli ultimi mesi e, attingendo alle cronache politiche, stilare l’interminabile elenco delle questioni – quasi sempre motivo di scontro dentro la maggioranza di governo – intorno alle quali si sono accesi i riflettori dell’attenzione pubblica, per rendersi conto di come siano state solo fugaci vacuità, destinate a non lasciare segno alcuno. Cosa resa ancor più grave dal fatto che in questa fase esiste un “non governo” che non produce alcuna decisione e sopravvive esclusivamente nell’attesa che si compia il rito elettorale del 26 maggio. Il risultato è il vuoto pneumatico.

Ma per quanto sopraffatta, la realtà ha però sempre modo di rifarsi. Anzi, tanto più è dimenticata e offesa, tanto maggiore è la sua vendetta. In questa circostanza, risultato delle europee a parte, sono due le questioni reali con cui la politica sarà costretta fare i conti: la giustizia e l’economia. Sia chiaro, entrambe hanno già bussato alla porta, e i conti sarebbe già tardi affrontarli subito, ma la sordità e l’autoreferenzialità del ceto politico impediscono di ascoltare quelle che sono ben più di avvisaglie. Di fronte alle quali le reazioni – girarsi dall’altra parte, buttare la palla avanti, sciorinare i soliti riflessi condizionati – sono quelle classiche cui ci ha abituato il lessico comportamentale della Seconda Repubblica, altro che “cambiamento”.

È vecchio di oltre un quarto di secolo, per esempio, il modo con cui (non) si affronta la questione giustizia. Come ha scritto con grande efficacia Carlo Nordio, la modalità di Conte di fronte al “caso Siri” tradisce l’incapacità di rendere vera, e non retorica, l’affermazione che s’intende rispettare la “presunzione di innocenza”. Resa “presunta” – ci si consenta il gioco di parole – dall’evocazione dell’inopportunità politica della permanenza in carica del sottosegretario leghista. La quale, però, discende dall’indagine giudiziaria in corso, visto che peraltro in sede di formazione del governo nulla ha ostato alla nomina di Siri nonostante avesse già una condanna passata in giudicato (per bancarotta) a suo carico. I giustizialisti – in questo caso i 5stelle – hanno motivato la richiesta di dimissioni e poi di estromissione con l’anatema “qui si parla di corruzione e mafia”, come a dire che di fronte a certe ipotesi di reato occorre “tolleranza zero”. Peccato che quelle circostanze non siano state accertate non solo dalla magistratura giudicante, ma neppure certificate da quella inquirente. E considerato che la storia giudiziaria d’Italia è costellata di casi in cui questo tipo di indagini finiscono nel nulla, per archiviazione o proscioglimento – purtroppo dopo molto tempo e comunque sempre dopo che gli effetti di “sputtanamento” del “presunto colpevole” si sono devastatamente manifestati – ecco che la rimozione per inopportunità politica diventa pienamente sostituiva del giudizio penale.

Ma come sempre, o quasi, è capitato dal 1992 in poi, anche questa volta la politica si è consegnata mani e piedi alla magistratura. I nemici – di partito, di governo, di opposizione – invocano il gesto esemplare in nome della verginità giudiziaria, mentre gli amici balbettano, arrossendo, le rituali parole sulla presunzione d’innocenza prudentemente accompagnate da quelle sulla “fiducia nella magistratura”. I primi vincono, i secondi perdono. Salvo invertire i ruoli non appena le circostanze lo richiedano. Così i grillini hanno difeso la Raggi, con tutti i garantisti del giorno prima a chiederne la testa, per poi indossare i panni giustizialisti non appena c’è la convenienza politica ad approfittare della vicenda Siri, pensando di recuperare un po’ della verginità perduta. Considerato che i due ruoli, quello del garantista e quello del giustizialista, spesso vengono scelti anche per regolare i conti dentro a ciascun partito, voi capite che la politica nel suo insieme non può che risultare prona al potere giudiziario. Tanto più se poi, come è stato in questi 27 anni, non si dimostra capace di riformare il sistema giustizia in modo tale da soffocare sul nascere le ragioni che minano l’autonomia della politica stessa, riaggiustando l’utensile fondamentale della democrazia, la divisione dei poteri.

Non ci sfugge che le attività di malaffare, e pure quelle poco commendevoli ancorchè formalmente appena al di qua della linea di confine, si stiano moltiplicando, formando un quadro desolante dove pochezza, furbizia maldestra e tendenza a delinquere si sommano. Ma questo non può e non deve giustificare il fatto che assegni ai pm – anzi, che si consenta ad alcuni di loro di autoassegnarsi – il compito, del tutto improprio, di moralizzare la politica e di selezionare la classe dirigente. Anche perché il risultato di questa devianza, dopo tanti anni, è e continua ad essere non la bonifica del Paese, ma quello di agevolare il suo progressivo sprofondare nella melma corruttiva e il suo esponenziale imbarbarimento. Sia chiaro, però, che la colpa è tutta e solo della politica, cui va applicato il principio secondo cui quando vola uno schiaffo la colpa è sempre e comunque di chi se lo fa dare, vuoi perché se lo merita o vuoi perché, essendo immeritato, non è stato capace di evitarlo. E in ultima istanza dei cittadini, cui spetta la responsabilità di rompere questa maledetta spirale in conseguenza della quale ad ogni setacciata moralisteggiante di partiti, uomini politici, correnti e cerchi magici corrisponde la nascita di classi dirigenti sempre più squalificate, incapaci di governare il Paese e pronte, ogni volta sempre più velocemente, a finire nel girone infernale dei rei.

E che le nuove leve della politica non siano all’altezza del compito e delle sfide, lo dimostra lo stato di salute della nostra economia. Sarebbe troppo – e in questa sede ripetitivo – ricostruire i tasselli del declino italiano. Ci basta sapere che, soli in tutta Europa, siamo finiti per la terza in un decennio in recessione e che il massimo sforzo prodotto per uscirne è quello di portarci nel regno della stagnazione perenne, dove l’alternativa è tra la crescita zero e la crescita zero virgola. Con l’aggravante, ora, di esserci giocati – solo per rendite elettorali, peraltro destinate a durare lo spazio di un voto – tutti i margini di flessibilità nella gestione della finanza pubblica che l’Europa e, soprattutto, la politica monetaria della Bce, ci hanno concesso. Il copione, già scritto, prevede che con la prossima manovra di bilancio tutti i nodi verranno drammaticamente al pettine, e suonerà l’ora della scelta tra misure draconiane e Italexit. Ma di questa evenienza non si parla in campagna elettorale, facendo finta che non esista o che si possa eludere, salvo qualche battuta da avanspettacolo, esorcizzante.

Salvini, Di Maio, Conte, Zingaretti, Berlusconi, Meloni, e via elencando, farebbero bene a riflettere su quanto è successo negli ultimi tre decenni: la giustizia e l’economia sono come l’Epifania con le feste, tutti i politici se li portano via. E sempre più velocemente. Ma anche noi cittadini faremmo bene a riflettere, da qui al 26 maggio. E oltre.

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