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L'editoriale di TerzaRepubblica

Per fortuna Mattarella c'è

PER FORTUNA MATTARELLA C’È MA LA SUPPLENZA CUI È COSTRETTO RENDE PIÙ PROBABILI LE ELEZIONI ANTICIPATE

16 febbraio 2019

Il percorso è a dir poco paradossale, ma stiamo diventando una specie di repubblica presidenziale. Per disgrazia e per fortuna, nello stesso tempo. Il primo a non desiderare questa deriva, per indole e cultura politica, è Sergio Mattarella. Ma vi è costretto dalle circostanze, preoccupato com’è dall’affacciarsi della terza recessione in dieci anni, stavolta tutta endogena, e dall’imbastardimento della situazione politica e, soprattutto, dei riflessi che tutto questo comporta sull’immagine del paese nel contesto europeo e internazionale. Per esempio, non osiamo pensare a come al presidente della Repubblica deve essergli gelato il sangue ad ascoltare il durissimo intervento, per di più in un buon italiano, del leader dei liberaldemocratici al parlamento europeo, Guy Verhofstadt (qui), verso il quale è sbagliato opporre, come hanno fatto alcuni editorialisti e Carlo Calenda, un pre-giudizio patriottico. Ed è proprio per il progressivo isolamento dell’Italia che Mattarella si sente obbligato, suo malgrado, a rendersi interlocutore delle cancellerie, svolgendo così un ruolo di supplenza del governo assente o, peggio, pronto a far danno (come nel caso Venezuela). Poi, spinto dalle tensioni quotidianamente create da esponenti del governo, è indotto ad un lavoro di esternazione sui temi di maggiore attualità cui non era abituato e di cui per carattere farebbe volentieri a meno. Infine, ecco le due gocce che hanno fatto traboccare il vaso: la crisi diplomatica con la Francia e la vicenda Banca d’Italia. In entrambi i casi, il Capo dello Stato avrebbe voluto che fosse il presidente del Consiglio a trovare il modo di sbrogliare quelle due intricate matasse – e non ha certo mancato di farlo sapere all’interessato, pur con la discrezione massima che contraddistingue sempre il suo agire – ma l’avvocato Conte, forse distratto da quei consiglieri che inebriati dal potere gli vorrebbero cucire addosso l’abito del leader politico, non ha risposto alle attese. Così è dal Quirinale e non da palazzo Chigi che è partita la telefonata a Macron che ha consentito il rientro dell’ambasciatore francese a Roma e la programmazione di una visita di Stato di Mattarella a Parigi con cui si per fortuna chiuso l’inedito incredibile conflitto con un paese amico e consocio nel club della moneta comune, di cui si poteva tranquillamente fare a meno se solo il buon senso e l’educazione istituzionale avessero prevalso sull’imprudenza e il dilettantismo. Ed è sempre il Colle che si è attivato per cercare rimedio allo strappo, anche di natura procedurale oltre che di merito, sul rinnovo delle cariche apicali in Bankitalia, che per di più ha generato scenari inquietanti, dall’uso delle riserve auree per fare cassa alla messa in discussione dell’autonomia e indipendenza della banca centrale.

 

Dunque, un interventismo, quello di Mattarella, reso indispensabile dalle continue forzature elettoralistiche degli azionisti dell’esecutivo e dalla negligenza di chi (formalmente) lo guida, oltre che dalle (inevitabili) reazioni internazionali. Ma di cui il presidente della Repubblica vorrebbe al più presto tornare a poter fare a meno. Come? Per esempio cambiando idea sul tema, fin qui tabù, delle elezioni anticipate. Come sapete, uno degli elementi che hanno cementato il rapporto tra 5stelle e Lega, o meglio tra Di Maio e Salvini (che non è proprio la stessa cosa…), è stata la conclamata indisponibilità del Capo dello Stato a sciogliere le Camere in caso di crisi di governo. Di Maio, che non ha nessun interesse ad andare al voto, l’ha usata come arma di difesa, anche interna al suo movimento, dell’accordo che ha stipulato con Salvini. Quest’ultimo, che invece è tentato di passare all’incasso prima che questa esperienza di governo, fin qui remunerativa sul piano elettorale, diventi un boomerang, ha considerato il tabù del Quirinale come un impedimento ad aprire una crisi che anziché alle urne lo avrebbe da un lato esposto ad un possibile ritorno della vecchia idea dell’alleanza tra M5S e Pd che lo sospingerebbe all’opposizione, e dall’altro, per scongiurare questa eventualità, lo avrebbe portato all’affannosa ricerca di una maggioranza formata dal centro-destra e da una pattuglia di pentastellati neo “responsabili”.

 

Ma se ora dal Colle gli venissero segnali di altro tipo, Salvini che farebbe? Ascolterebbe chi nella Lega, e sono tanti e molto autorevoli, gli consiglia da tempo di fare un’analisi “costi-benefici” (va di moda) del protrarsi dell’alleanza con Di Maio, convinti che (al contrario della Tav, checché ne dica la commissione Ponti) gli svantaggi superano i vantaggi? Oppure si ostinerebbe a tirare avanti, nella convinzione – a nostro giudizio infondata – che tornare a dover fare i conti con Berlusconi sia peggio e che il trascorrere del tempo lo aiuta a travasare quel 10% che ora vale Forza Italia dentro il serbatoio elettorale della Lega? Sono domande a cui non siamo in grado di dare risposta, considerato che Salvini è un solista e che dunque nessuno dentro la Lega è davvero in grado di farlo. Tuttavia, possiamo azzardare un pronostico: Salvini tirerà avanti fono alle europee, ma immediatamente dopo le elezioni di maggio sarà costretto dagli eventi a staccare la spina. Solo che dovrà sciogliere allora il nodo cui si rifiuta di mettere mano oggi: le alleanze. Basterebbe analizzare con più freddezza di quella che si è vista in giro, persino da parte degli avversari di Salvini, il voto in Abruzzo di domenica scorsa. Tutti hanno guardato il forte incremento di voti che la Lega ha ottenuto rispetto alle politiche del 4 marzo. Ed è vero: in termini percentuali è passata dal 13,8% di allora, poco più di tre punti in meno della media nazionale (17%) al 27%, e in valore assoluto ha incrementato i voti nonostante il forte aumento delle astensioni. Ma il raffronto politicamente più significativo andrebbe fatto con le aspettative suscitate dai sondaggi di questi mesi, su cui Salvini ha costruito il ribaltone in termini di forza contrattuale nel governo e ha fatto balenare l’idea che la prossima volta andrà lui a palazzo Chigi e senza bisogno del supporto di nessuno. Parliamo di un accreditamento di consensi, sempre in crescita, che vanno dal 33% al 38%, che a molti ha fatto dire che alle prossime elezioni politiche la Lega sarebbe in grado di raggiungere e varcare la fatidica soglia (quella che ha portato sfiga a Renzi) del 40%. Ora, anche supponendo che per la Lega una regione come l’Abruzzo sia destinata a mantenere quei tre punti di distacco dalla media nazionale, ecco che le urne ci dicono che Salvini è attestato sul 30% e non oltre. Un livello stratosferico, se si pensa alla velocità con cui sarebbe conquistato, ma non in grado di fargli eludere il tema delle alleanze. Ancora con i 5stelle, ben sapendo che se a quel suo risultato corrisponderà un regresso pentastellato come quello visto in Abruzzo di fronte non avrà il “governativo” Di Maio ma qualche ultrà alla Di Battista? O farà i conti con i vecchi alleati del centro-destra, nei quali ci sarà inevitabilmente il mal sopportato Cavaliere?

 

È del tuto evidente che queste domande non riguardando soltanto Salvini, ma tutti noi. E a maggior ragione fintanto che sul fronte dell’attuale opposizione e dal di fuori dell’attuale asfittico circuito politico non arrivano segnali che possano smuovere gli italiani dalla sfiducia e dalla rassegnazione in cui sono caduti e che finora non ha reso evidente nessuna alternativa al governo degli “scappati di casa”. Forse una piccola fiammella di speranza si è accesa sul fronte confindustriale, a leggere certe presi di posizione di esponenti del Nord, e su quello sindacale, considerato che con la manifestazione della settimana scorsa a Roma, come ha notato Dario Di Vico sul Corriere della Sera, si è consumata la rottura, inaspettata dopo la vittoria di Landini nella corsa alla segreteria della Cgil, con il populismo politico. Ma di questo parliamo approfonditamente la prossima volta.

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