La vera proposta di cambiamento
CONTE PARLA AD UNA PARTE DEL PAESE. L’ALTRA, DEVE LANCIARE UNA PROPOSTA DI VERO CAMBIAMENTO
08 giugno 2018
L’inesperienza celata maldestramente. La sudditanza mascherata da uno spesso strato di arroganza. Le gaffe da dilettante allo sbaraglio. La mancanza di cultura e visione politica che da un lato lo spinge a cercare il consenso assumendo toni forcaioli e posture giustizialiste (“sono l’avvocato degli italiani”), e dall’altro gli impedisce di aggiungere alcuna idea programmatica a quelle altrui condensate nel famoso “contratto”. La lista dei segni tracciabili con la matita rossa nell’esaminare i compiti fin qui svolti dal professor Conte, volendo, sarebbe lunghissima. Ed è riassumibile in un concetto: il presidente del Consiglio è inadeguato. Ma commetteremmo un grave errore di valutazione se non considerassimo, altresì, che Conte – e più in generale questo governo – risulta invece perfettamente adeguato agli occhi di una parte importante del Paese. Probabilmente, anzi certamente, non alla sua maggioranza. Ma di sicuro nemmeno ad una piccola minoranza. E non sarebbe un banale trattatello di sociologia un lavoro che analizzasse chi sono gli italiani alla cui pancia il governo giallo-verde è capace di parlare. Verosimilmente, scopriremmo che un filo rosso qualunquista – politicamente declinato in un peronismo dai tratti insieme destrorsi e sinistrorsi senza l’imbarazzo della coerenza – lega il Sud più arretrato al Nord di quella borghesia agiata ma priva di coscienza di classe, uniti dalla logica della “previsione di colpevolezza” (altrui, naturalmente) evocata dal primo ministro in Parlamento, che sfocia in una condanna senza appello alle classi dirigenti (ceto politico, casta pubblica ed élite intellettuali) che a sua volta genera l’irrefrenabile desiderio di un nuovismo da cui pescare il jolly dell’uomo forte che finalmente mette a posto le cose che non vanno.
Tutto questo, se è vero, porta a valutare come profondamente sbagliati due diversi atteggiamenti che stanno emergendo, nella politica come nei media e nella società. Da un lato, l’approccio minimalista di chi, pur sentendosi lontano da 5stelle e Lega, applica con eccesso di pragmatismo il “wait and see” per cui si deve acriticamente e pazientemente stare a vedere ciò che questi davvero combineranno. Dall’altro, l’approccio dell’opposizione preconcetta, dell’irrisione sul piano personale. Per capirci, quella che è riecheggiata nell’intervento sprezzante di Renzi in Senato. Tanto con la benevolenza acquiescente quanto con il disprezzo non si va da nessuna parte. Occorre, invece, coniugare intransigenza e rispetto, evitare di pronunciare solo dei no o evocare enfaticamente questioni di principio ma, al contrario, saper entrare nel merito dei temi e delle proposte.
Prendiamo, per esempio, i contenuti del programma di governo. L’unico approccio che fin qui abbiamo visto in campo è quello della misurazione della sua realizzabilità, soprattutto sotto il punto di vista dei costi. Le sue declinazioni sono tre, ma tutte riconducibili allo stesso principio. La prima è quella fideistica: questo è il “governo del cambiamento” e siccome tutto ciò che è stato fatto prima equivale a spazzatura e peggio non può andare, siamo convinti che il duo Di Maio-Salvini ci farà stare meglio. La seconda declinazione è basata sullo scetticismo: programma bellissimo, ma è un libro dei sogni, ne realizzeranno poco e niente. Un po’ perché i “poteri forti” gli metteranno i bastoni tra le ruote e un po’ perché si faranno irretire dal potere e ben presto diventeranno casta pure questi. La terza declinazione, infine, è di tipo oppositivo: il programma è irrealizzabile perché costa troppo e perché il governo è formato da dilettanti che non ci sanno fare. In qualche caso si aggiungono critiche a questo o quel provvedimento, soprattutto di natura ideologica – no alla flat tax perché azzera la progressività, no al reddito di cittadinanza perché regala soldi ai fannulloni – ma senza mai proposte alternative.
Si tratta di atteggiamenti che non servono a nulla. I programmi di governo non sono buoni o cattivi per il solo fatto che a proporli sia qualcuno “nuovo”: buoni perché tanto peggio di così non può andare o cattivi perché sanno assai di come si governa un paese. Pensate che a noi, invece, il “contratto” non piace non (o non solo) per le scelte che fa o perché quelle scelte sono prive delle coperture finanziarie necessarie. No, a noi non piace soprattutto per quello che in esso non c’è. In esso manca la diagnosi, cioè un’analisi delle condizioni reali del Paese, e di conseguenza una prognosi e delle adeguate terapie. Non si dice, cioè, che l’Italia è uscita solo nominalmente, e molto parzialmente, dalla crisi recessiva degli anni scorsi, perché al miglioramento congiunturale – peraltro leggero, e di molto inferiore a quello degli altri partner europei e dei competitor mondiali – non è seguito alcun significativo intervento di natura strutturale sui mali endemici del nostro sistema-paese, né sotto il profilo dei processi economici e degli assetti del capitalismo, né sotto quello dell’architettura istituzionale. Inoltre, queste condizioni di cattiva salute portano pienamente la nostra responsabilità, considerato che se è vero che la crisi finanziaria del 2008 che ha innescato la peggiore recessione della nostra storia repubblicana non l’abbiamo certo provocata noi, altrettanto certo è che all’Italia ha fatto più male che a chiunque altro per il semplice motivo che essa ha fatto da moltiplicatore di problemi e ritardi nazionali mai risolti. Insomma, quando la crisi ha spento la luce, l’Italia era già al buio da un pezzo, e quando la luce si è riaccesa, noi siamo rimasti nell’oscurità ancora a lungo e dopo abbiamo visto solo la penombra. Altro che Germania cattiva o Europa matrigna.
E se così stanno le cose, allora ciò che qualunque governo – tanto più uno che si autodefinisce del “cambiamento” e ha la presunzione di inaugurare una nuova stagione della Repubblica (segnatamente la Terza) – avrebbe davanti non è il tema redistributivo-perequativo e neppure, tantomeno, quello “sovranista” dello svincolo dai legami europei per acquisire (ipotetici) spazi di libertà d’azione. Noi siamo rimasti ancora al palo dello sviluppo. E tanto più lo siamo ora che la ripresina sta svanendo (si vedano le pessime previsioni dell’Istat, che pronostica una frenata dell’economia nei prossimi mesi, dopo la flessione del primo trimestre) e che si torna a parlare di rallentamento produttivo, senza che peraltro sia ancora scattata la mannaia della fine della politica monetaria accomodante della Bce, che comincerà a farsi sentire in autunno. Dunque, il programma del vero cambiamento dovrebbe essere quello del ritorno alla crescita. Cosa che, dipendendo da fattori strutturali e non congiunturali, non può avvenire sostenendo la domanda, bensì ristrutturando l’offerta. La prima strada è già stata battuta: prima Berlusconi e Prodi, poi Renzi, hanno creduto che il problema italiano fosse quello del rilancio dei consumi, da favorire tagliando tasse, abbassando i prezzi o addirittura elargendo soldi (i famosi 80 euro). Non è successo niente. E questo mancato risultato dimostra che è invece necessario intervenire anche e soprattutto dal lato della qualità e del costo dei prodotti e dei servizi offerti. Certo, è necessario agire sui “vincoli esterni” (burocrazia, giustizia, credito, tasse, costo del lavoro, ecc.), ma non si va da nessuna parte se non si ripensa al nostro sistema produttivo, attraverso un grande piano di investimenti, pubblici e privati. Prima l’offerta e poi la domanda: ecco la regola d’oro da inserire nell’agenda del governo. Ma questo presuppone che le forze politiche d’opposizione e le forze sociali si preparino fare proposte, e non solo a lanciare anatemi. E che quelle di governo, se vogliono provare a durare, si accingano all’ascolto e si mettano a studiare seriamente. Altrimenti ci penserà lo spread. E sarà doloroso per tutti.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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