Un governo atlantico
L’ECONOMIA FRENA, LA SIRIA INCOMBE E NOI SIAMO SENZA GOVERNO, CHE DEVE ESSERE EUROPEO E ATLANTICO
13 aprile 2018
Ora basta. Siamo stati i primi a dire che non ci si doveva scandalizzare se forse occorso del tempo per verificare le possibilità di formare una maggioranza di governo, e che non andavano bollate come rituali inutili le consultazioni del Capo dello Stato e i contatti informali tra i partiti. Ma fin dal primo momento, anzi già prima del voto, avevamo anche pronosticato che nessuno sarebbe uscito vincitore dalle urne e che, in mancanza di un anche minimo terreno di dialogo politico tra le diverse forze in campo, non ci sarebbero state le condizioni perché si potesse realizzare alcuna delle combinazioni teoricamente possibili. Aggiungendo un caloroso “per fortuna”, visto che nessuna avrebbe avuto, per le ragioni più diverse, le caratteristiche non si dice giuste, ma neppure minime per rendere un servizio al Paese. Dunque, si trattava di avere il tempo di far “spurgare” le diverse ipotesi – Mattarella non avrebbe certo potuto partire dal presupposto che le consultazioni non avrebbero dato esito, anche se in cuor suo ben lo sapeva, o quantomeno lo sospettava – per poi prenderne atto ufficialmente e procedere in altra direzione. A questo siamo puntualmente arrivati, e al Quirinale non è rimasta altra scelta che avvertire i partiti che i mancati progressi del loro confronto – a fronte, invece, della necessità di avere velocemente un governo “nella pienezza delle sue funzioni” – costringono il Presidente della Repubblica ad attendere solo alcuni giorni, trascorsi i quali “valuterà in che modo procedere per uscire dallo stallo”. Dopo la conclamata scelta aventiniana del Pd – giusta nella sostanza, maldestra nelle modalità – e il palesarsi in modo persino plateale della profonda spaccatura del centro-destra, che non è mai stata una vera alleanza ma solo un cartello elettorale, e l’evidente impotenza dei 5stelle, figlia della loro storia (il no a Berlusconi) e dei loro limiti politici (l’ansia di mettere subito all’incasso il successo elettorale), il tutto condito da fratture interne a ciascun partito pronte ad esplodere, è ormai evidente – come abbiamo sempre sostenuto – che solo Mattarella può risolvere il rebus con una sua iniziativa autonoma a cui i partiti o si adegueranno o altrimenti si dovranno assumere la responsabilità di riportare gli italiani al voto.
Una scelta cui tutti, a questo punto, devono essere messi di fronte. Anche perché ci sono una serie di segnali inquietanti che dovrebbero indurre al massimo senso di responsabilità. Ad alcuni Mattarella ha fatto cenno: prima di tutto l’acuirsi delle tensioni internazionali in aree non lontane dall’Italia, a cominciare dalla Siria, le scadenze importanti e imminenti dell’Unione Europea, i contrasti nel commercio internazionale. Su altre ha sorvolato per non destare allarme, ma al primo posto dei timori c’è (o ci dovrebbe essere) la nostra congiuntura economica, che rischia di invertire il trend positivo avuto fin qui. La Banca d’Italia proprio oggi ha certificato che l’economia ha rallentato il ritmo nei primi mesi di quest’anno, accentuando una tendenza a frenare che era già iniziata a fine 2017: la produzione industriale ha dato segnali preoccupanti, e il pil nel primo trimestre cresce ancora, ma meno di un anno fa. La spinta è dunque meno intensa di quella accumulata nel 2017, anche se non ancora tale da mettere a rischio la crescita. Ma l’allerta è giustificata anche in considerazione della situazione internazionale, caratterizzata dalle tensioni sul commercio globale scatenate dai dazi imposti da Trump e dal pericolo che Usa e Russia si misurino sul piano militare nel drammatico scenario siriano. Senza contare che diversi indicatori fanno immaginare che l’economia europea, Germania compresa, si stia lasciando alle spalle il picco di crescita e che, complice l’imminente uscita del Regno Unito dalla Ue, il secondo semestre dell’anno possa riservare brutte sorprese a tutta l’eurozona. Se poi a questo si aggiunge la certezza di un rialzo dei tassi per la programmata fine della politica monetaria accomodante da parte della Bce, che potrebbe pesare sui conti pubblici su cui già gravano le cosiddette “clausole di salvaguardia” Ue (nel caso aumenterebbe l’Iva nel 2019) e la necessità di una manovra correttiva per gli scostamenti già registrati nel 2018, si capisce come la temporanea assenza di un governo con
pieni poteri rischi di diventare presto un problema grave. Per ora i mercati sono stati tranquilli e non hanno fatto aumentare i premi per il rischio sovrano dell’Italia (lo spread resta stabile, anche se in 18 mesi il rendimento del nostro BTP decennale è quasi raddoppiato, salendo a 1,76%), ma i principali gestori di fondi internazionali hanno da tempo lasciato capire che c’è il rischio che i nostri titoli di Stato possano essere svenduti con l’avvicinarsi del momento in cui la Bce cesserà di acquistarli e dunque proteggerli. Tutti, da Balckrock a Barclays, fanno riferimento alla fragilità del quadro politico italiano ed evocato la possibilità che la formazione di un governo di natura populista o l’empasse che dovesse riportarci al voto subito finiscano con l’interrompere la stagione delle riforme o addirittura ci facciano tornare indietro cancellando quelle fatte.
L’unico modo per scongiurare tutti questi rischi è avere un governo. Ma attenzione, non uno qualsiasi: ne occorre uno che persegua la crescita senza tralasciare il risanamento della finanza pubblica, e dunque rispetti i parametri europei su deficit e debito oppure sappia proporre riforme così radicali e innovative da negoziare con credibilità una loro modifica virtuosa a Bruxelles. Pena una nuova guerra finanziaria che finirebbe per travolgerci. Poi si vada a raccontare, come abbiamo fatto nel 2011, che la colpa è della speculazione, dei gnomi cattivi e dei poteri forti mondiali che vogliono fare dell’Italia un sol boccone. Tutte cose vere, per carità, ma dalle quali ci si difende mettendosi in condizione di non farsi attaccare. E perché questo accada, non basta fare ammenda oggi delle fesserie populiste e sovraniste raccontate ieri in campagna elettorale. Perché anche prendendo per buone le marce indietro di Di Maio (maggiori) e quelle (minori) di Salvini, non basta: ci vuole ben altro per avere chiaro in testa un programma serio, credibile ed efficace di cose da fare. Così come non basta contrapporsi ai populisti e sovranisti e dichiararsi riformisti – leggi Pd – per credersi la giusta alternativa, tanto più senza aver fatto la minima analisi del voto e capito quali errori (gravi) si sono commessi quando si avevano in mano le leve delle decisioni.
Antonio Polito sul Corriere della Sera ha fatto riferimento ad una questione che sappiamo essere diffusa: le forze politiche devono mostrare responsabilità e fare un governo perché ciò risponde agli interessi supremi del Paese. Vero, e quanto abbiamo detto fin qui lo testimonia. Ma è anche vero che non qualunque governo risponde a quegli interessi. Guai a farne uno purchessia. Insomma, Mattarella faccia i passi che crede più opportuni – incarico esplorativo, pre-incarico o direttamente incarico a persona scelta da lui – ma vada al nocciolo della questione, perché tutto ci dice che non c’è tempo da perdere. E il nocciolo è sì fare un governo, ma farlo che sappia rispondere, oltre che alle esigenze interne, anche a quelle europee e atlantiche. Altrimenti è davvero meglio (meno peggio), visto che i presunti innovatori non si riescono a mettere d’accordo, ritornare il cerino agli elettori.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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