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L'editoriale di TerzaRepubblica

Legislatura disaggregante

ALTRO CHE TERZA REPUBBLICA QUESTA SARÀ LA LEGISLATURA IN CUI PARTITI E ALLEANZE SI DISGREGHERANNO 

23 marzo 2018

Preparatevi alla disgregazione. Non c’è solo tattica, ma sarebbe meglio dire bassa cucina, in ciò a cui ci tocca assistere in queste ore dedicate alla ricerca dei presidenti di Senato e Camera – che, giova ricordarlo, sarebbero la seconda e la terza carico dello Stato, costituzionalmente parlando – tra presunti vincitori delle elezioni che pretendono di farla da padroni e perdenti che non si accettano tali e che cercano disperatamente di darsi un ruolo, tutti accomunati dall’uso sfrenato della furbizia (peraltro presunta). È sempre successo, sia chiaro, ma a fare la differenza, ogni volta drammaticamente in peggio, è l’incommensurabile differenza nella statura dei protagonisti, sia dei possibili candidati che di coloro che tirano le fila dei giochetti parlamentari. Certo, nessuno poteva pensare che dopo il duo Grasso-Boldrini si potesse scendere ancora più in basso, e invece temiamo che anche stavolta ci attendano scivolosi scalini che portano agli inferi del declino.

Tuttavia, stavolta c’è qualcosa di più e di diverso. Siamo convinti, infatti, che assisteremo, nei partiti e nelle alleanze elettorali che hanno concorso il 4 marzo, a profondi rivolgimenti interni. E con essi alla scomposizione – e, speriamo, ricomposizione – del sistema politico. Anzi, l’unica speranza che in questo momento ci sentiamo razionalmente di coltivare è che questa legislatura sia breve (1 anno) e abbia come risultato positivo il sostanziale azzeramento della geografia politica. In modo che quando si tornerà a votare, non solo lo si faccia con una normativa elettorale nuova rispetto al deprecabile sistema con cui siamo andati ora alle urne, ma anche con la possibilità di usufruire di una diversa offerta politica. Altro che Terza Repubblica, come l’inesperto quanto ambizioso Di Maio si è azzardato a definire il “non sense” politico-istituzionale uscito dal cilindro del 4 marzo. Non ha certo titolo di essere chiamata così la brace ardente in cui siamo finiti cadendo dalla padella di quella breve stagione (iniziata nel novembre del 2011 con la caduta di Berlusconi e l’avvento del governo Monti) che noi abbiamo chiamato “Seconda Repubblica bis”, nella quale a sua volta eravamo precipitati dopo 17 anni di cottura a fuoco lento, iniziata nel 1994 dopo la caduta definitiva della Prima Repubblica. E se per caso fosse, sappiate fin d’ora che questa gloriosa testata su cui ci state leggendo, cari lettori, cambierà senza indugio nome e ambizione, volgendo le sue speranze verso quella che necessariamente chiameremo Quarta Repubblica, senza peraltro alcun riferimento alla tormentata Quatrième République francese.

La settimana scorsa vi abbiamo già detto perché siamo convinti della brevità della legislatura che si è appena aperta, azzardando addirittura il pronostico che si vada a votare il 26 maggio 2019, in concomitanza con le già convocate elezioni europee. Stavolta vediamo di capire perché è assai probabile che ci si arrivi con un alto tasso di frammentazione del quadro politico attuale. Chi appare già avviato su quella strada è sicuramente il Pd. E non solo perché ha brutalmente perso le elezioni. Ad essere devastante sarà il risultato finale dello tsunami renziano di questi anni. Renzi, che si è dimesso ma non è dimesso, quando si accorgerà – presto, anzi prestissimo – che si andrà erodendo la quota di parlamentari a lui fedeli, nonostante abbia fatto le liste manu militari anche a costo di produrre morti e feriti, porrà un ultimatum. Il cui esito potrà essere indifferentemente la sua uscita dal Pd o l’uscita di tutti gli altri (cui, in entrambi i casi, torneranno a unirsi gli ex transfughi capitanati da D’Alema e Bersani), ma che certamente sancirà la rottura tra lui e le altre componenti. Il copione del film è già scritto, mancano solo i dettagli. Altro, invece, è capire cosa saranno e quale ruolo potranno giocare le due forze che quella spaccatura produrrà. Il primo schema che può venire in mente è che quello di Renzi sarà un partito più spostato al centro e l’altro più orientato a sinistra. Ma non è detto. Per esempio, una variabile importante sarà rappresentata da Calenda, che difficilmente (per non dire certamente no) starà con Renzi, ma che potrebbe dare una connotazione riformista all’altro fronte, che a quel punto con tutta probabilità perderebbe pezzi (per esempio Emiliano) verso la nebulosa della sinistra più radicale, che di certo nel frattempo avrà aperto l’ennesimo cantiere rifondativo.

Nello stesso tempo Renzi potrebbe incrociare la sua strada con quella della parte più moderata del centro-destra, già in queste ore – vedasi le prime votazioni al Senato e alla Camera – pronto a spaccarsi come coalizione (in linea con quanto da noi pronosticato fin dai primi passi del patto d’argilla Berlusconi-Salvini-Meloni) e domani anche come singoli partiti e relativi gruppi parlamentari. D’altra parte, il risultato elettorale rende la cosa ineluttabile: Salvini tenterà di far fuori il Cavaliere in via definitiva e per questo lancerà una vera e propria opa su Forza Italia. Berlusconi cercherà di reagire con una contro-opa sulle personalità della Lega più disallineate rispetto a Salvini (Maroni, ma non solo). Entrambi, poi, proveranno a risucchiare sia Fratelli d’Italia che la quarta gamba centrista, dando vita ad un frullato che riconsegnerà alla scena politica soggetti molto diversi da quelli attuali. Ovvio che in questa lotta, a metà strada tra la supremazia e la sopravvivenza, Berlusconi guarderà a Renzi e persino alle componenti più riformiste (ma non renziane, o ex renziane) dell’attuale Pd. Ed ecco che il frullato promette persino di tracimare dal frullatore.

Rimangono i 5stelle. Anche loro non sono per nulla esenti, nonostante abbiano raggiunto il 33% dei voti, dal virus della disgregazione. Intanto perché hanno già perso un piccolo gruppetto di neo-eletti, i reprobi di rimborsopoli, prima ancora di iniziare. Poi perché le mosse di Grillo hanno reso evidente che esistono due anime, quella movimentista della prima ora e quella governativa capeggiata da Di Maio. Si dirà: non è detto che quelli del “vaffa” e quelli della “camicia bianca inamidata” siano destinati per forza a dividersi. Vero. Ma solo a patto che l’operazione di istituzionalizzazione del movimento dia davvero frutti. Perché se non dovesse portare alla conquista dello scranno più alto della Camera – o se ci portasse la persona sbagliata – ma soprattutto non dovesse portare i 5stelle al governo, o non come protagonisti e magari senza la presidenza del Consiglio, è certo che partirebbe con effetto immediato una guerra totale a Di Maio, il cui esito potrebbe essere una clamorosa spaccatura verticale dei 5stelle.

No, cari lettori, non fatevi cadere le braccia (che peraltro dovrebbero esservi cascate da tempo). Può sembrare paradossale, ma le dinamiche che vi abbiamo descritto come assai probabili e prossime, non sono affatto una sciagura, bensì il meglio (si fa per dire) di quello che ci può riservare questa sciagurata legislatura. Meglio che frulli tutto, credeteci.

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