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L'editoriale di TerzaRepubblica

Voto col naso turato

VOTO COL NASO TURATO E POI CINQUE SCENARI CONFIDANDO IN MATTARELLA

02 marzo 2018

La campagna elettorale è stata pessima. Anzi, paradossale, con i partiti che hanno fatto a gara a chi promette di più in un clima di assoluto scetticismo e generale indifferenza che ha reso quelle lusinghe inutili se non addirittura controproducenti. Lo spettacolo di liste di candidati piene di mezze figure e di dilettanti allo sbaraglio è stato a dir poco indecoroso. La sensazione più diffusa nel paese è che l’esercizio del voto, complice una legge elettorale maledetta, sia inutile, perché ragionevolmente nessun schieramento raggiungerà la maggioranza. Di conseguenza, il numero degli indecisi alla vigilia delle elezioni non è mai stato così alto e probabilmente produrrà un elevato tasso di astensionismo. D’altra parte, non c’è bisogno di attingere all’armamentario del qualunquismo per coltivare il desiderio di non sentirsi complici di un sistema politico del tutto inadeguato. Inoltre, non facilita il pur nobile sforzo di turarsi il naso e andare alle urne il fatto che la realtà di due grandi blocchi, quello della continuità e quello della discontinuità – che così appare agli occhi dell’elettore medio lo scenario politico – sia nello stesso tempo non rappresentata nell’offerta elettorale e comunque in entrambi i casi pienamente insoddisfacente. Il primo blocco comprende le forze a naturale vocazione di governo, che predicano la continuità e la stabilità, il secondo arruola i populisti e i sovranisti-nazionalisti, che incarnano e predicano la rottura politico-istituzionale interna e verso l’Europa. Peccato però che i primi siano divisi – centro-sinistra da una parte, Forza Italia e centristi (la cosiddetta “quarta gamba”) dall’altra – e che i loro comportamenti siano fin troppo conservatori e i loro programmi eccessivamente intrisi di populismo. E peccato (ai fini della coerenza che gli elettori vorrebbero) che il secondo blocco veda la componente lepenista (Lega e Fratelli d’Italia) innaturalmente alleata con Berlusconi, che siede nel Ppe e indica Tajani come suo candidato per palazzo Chigi, che oltre ad essere presidente di quel parlamento europeo che Salvini ha seppellito sotto un mucchio di contumelie, appare un garante agli occhi della vituperata Merkel. Non solo. A complicare le cose, c’è anche la conversione a U che Di Maio ha fatto fare ai 5stelle, che hanno cercato in tutti i modi di archiviare la stagione del “vaffa”, relegando in soffitta l’anti-politica pur senza riuscire, però, privi di cultura ed esperienza politica come sono, a darsi un vero e coerente programma di governo e una classe dirigente credibile. Un cambio di paradigma che, oltre ad essere pasticciato, appare in netto contrasto, anche ideologico, con lo schema alla Rousseau di democrazia assembleare della prima ora.

Adesso, cari lettori, se di fronte alla cruda verità di questa analisi, vi è rimasta comunque la voglia – sana, sia chiaro – di sforzarvi di fare una scelta, a noi non rimane – dopo avervi fatto nelle settimane scorse un’analisi approfondita dei quattro pilastri su cui si poggiano queste elezioni – che suggerirvi di fare tre valutazioni finali. La prima: se siete molto sfiduciati e rischiate di trasferire nell’urna la vostra rabbia, forse è il caso che restiate a casa. Meglio un’astensione in più che dare il voto ai professionisti della protesta. La seconda: se restringete la vostra opzione tra centro-destra e centro-sinistra, quale che sia il campo prescelto è consigliabile evitare estremisti, populisti, sovranisti-nazionalisti, giustizialisti. Si dirà: ma così non ci rimane nessuno. In effetti… Ma, forse, applicando la regola del “meno peggio”, qualcosina si trova. Per esempio, sull’uno come sull’altro fronte, le gambe aggiuntive di Pd e del trio di centro-destra. La terza e ultima valutazione attiene alle quattro cose fondamentali che dovremmo farci garantire da chi eleggiamo: la stabilità, senza la quale siamo destinati a tornare nel mirino della speculazione finanziaria, che finora è rimasta sorniona a guardare ma che è prontissima a sferrare un nuovo attacco come quello del 2011; la centralità dell’Europa, che non significa esserle subordinati, ma consapevoli che per noi non c’è futuro senza; il sostegno alla ripresa economica in atto, con riforme coraggiose e un intervento strutturale sul debito pubblico; la riforma degli assetti istituzionali mettendo mano alla Costituzione, questa volta seriamente, e quindi attraverso l’unico strumento autorizzato, e cioè un’assemblea Costituente. O, come piace dire a noi, “ri-costituente”.

Detto questo, cari lettori, domenica fate vobis. Sapendo che il resto del mondo, a cominciare dai mercati, nella notte dei risultati farà di conto per capire se sarà il primo o secondo dei due macro-blocchi di cui vi abbiamo parlato, ad avere più del 50% dei seggi nel nuovo parlamento, e dal 5 marzo proverà a capire – con fatica, immaginiamo – chi sarà più avanti avrà anche la capacità di formare effettivamente una maggioranza. Per questo è opportuno fin d’ora immaginare quale sarà l’agenda del dopo voto, nella quale – ormai l’hanno capito anche i bambini – sarà centrale il ruolo del presidente della Repubblica.

Intanto, partiamo dal presupposto che le percentuali di voto che prima i sondaggisti e poi il Viminale via via ci daranno saranno solo indicative. E se non vincerà nessuno, il momento cruciale sarà, dopo la proclamazione degli eletti, l’iscrizione di ciascuno di loro ai vari gruppi parlamentari. Cosa per nulla scontata, non solo per la crescente tendenza alla transumanza parlamentare, ma per la presenza di un certo numero di grillini già espulsi prima ancora di essere eletti (una dozzina), e soprattutto per l’oggettivo discernimento degli eletti, specie del centro-destra, nei collegi uninominali, dove sono sostenuti da tutti i partecipanti alla coalizione ma poi dovranno giocoforza scegliere un solo gruppo a cui iscriversi. Una volta chiarita la ripartizione effettiva dei seggi, la data decisiva sarà quella del 23 marzo, quando le camere si riuniranno per eleggere i rispettivi presidenti. Sarà in quella circostanza, infatti, che si potranno sperimentare i primi tentativi di alleanze. Specie alla Camera, dove per forza si dovrà formare una maggioranza che superi al soglia del 50% più un voto perché non è previsto dai regolamenti il meccanismo del Senato che alla quarta votazione consente il ballottaggio tra i due più votati e dunque la formazione anche di una maggioranza relativa. Sarà un banco di prova non facile da superare. Nella Prima Repubblica era prassi che in un ramo del Parlamento si eleggesse un esponente della maggioranza e nell’altro uno dell’opposizione, in modo tale che, saggiamente, in entrambi i casi i presidenti fossero votati a larghissima maggioranza. Già, una volta. Ma adesso? Da tempo si è persa questa sana abitudine, e stavolta potrebbe anche scatenarsi un disastroso tutti contro tutti non avendo nessuna una maggioranza in tasca. Oddio, nel 2013 Bersani fece eleggere Boldrini e Grasso nella speranza di avviare così un dialogo con Grillo, il quale incassò quei due nomi come una sua vittoria e poi lasciò con un palmo di naso l’allora segretario del Pd. Ergo, politicizzare la nomina dei presidenti di Camera e Senato rischia di accrescere le asperità anziché appianarle. E dunque immaginare un’automaticità tra le due nomine e la formazione di una maggioranza di governo, potrebbe rivelarsi illusoria.

In tutti i casi, solo dopo – presumibilmente a partire da martedì 3 aprile, consumata la Pasqua – cominceranno le consultazioni al Quirinale. Che saranno tutt’affatto formali. Mattarella, che nel frattempo non si sarà in alcun modo esercitato a disegnare preventivamente scenari ipotetici, e che non è portatore di un suo piano politico, avrà modo di valutare chi, numeri alla mano, è in grado di indicargli una maggioranza (in entrambe le camere) possibile, e di verificare la fondatezza di quelle asserzioni. Soltanto dopo averlo fatto darà un incarico, che probabilmente sarà solo esplorativo, per massima prudenza e per mantenere al riparo il governo uscente (Gentiloni) nel disbrigo degli affari correnti (ricordiamoci che in Germania il vecchio governo Merkel è tuttora esecutivo, nonostante si sia votato a settembre). Tuttavia, pur muovendosi rigorosamente lungo i binari costituzionali, il Capo dello Stato non sarà semplicemente un notaio. Dovrà infatti incoraggiare, senza preclusioni ma con determinazione, la formazione di un governo capace di rispondere alle attese interne e internazionali e di evitare il ritorno subitaneo alle urne, anche con una legge elettorale nuova (che richiede pur sempre una maggioranza che la voti).

Sapendo fin d’ora che saranno cinque, salvo sorprese, le ipotesi di lavoro sul tavolo. Uno: le larghe intese, cioè centro-sinistra più Forza Italia. Difficilmente avrà i numeri, ma sarà una soluzione esplorata, specie se il fronte leghista, come si dice, dovesse spaccarsi, dividendosi tra chi vuole fare un accordo e chi starà all’opposizione. Due: un esecutivo populista-sovranista, che sommi ai 5stelle le truppe di Salvini e Meloni. È da tempo che segnaliamo questa eventualità, paventandone i pericoli. Molti l’hanno sottovalutata e continuano a considerarla improbabile. Noi no. Ma potrebbe essere che quella spaccatura dentro la Lega di cui abbiamo detto si produca anche in questo caso, al contrario (per non andare al governo). Tre: alleanza antifascista, cioè 5stelle più la sinistra e una parte del Pd. Presuppone che gli anti-renziani si saldino, dentro o fuori il Pd, e che le truppe parlamentari di Renzi, sulla carta numerose perché le liste le ha fatte lui, vadano all’opposizione. A nostro giudizio meno probabile dell’alleanza che i 5stelle possono fare a destra. Quattro: governo di unità nazionale, che presuppone l’iniziale chiamata di tutte le forze a farne parte, salvo verifica di chi poi effettivamente ci sta. Dovrebbe indurre Di Maio a starci, ma potrebbe spaccare il movimento (cosa possibile anche nelle ipotesi 2 e 3). Molto dipende dal nome del presidente del Consiglio incaricato di esplorare questo scenario, ma potrebbe rivelarsi una buona scelta. Cinque: continuazione del governo Gentiloni, con un voto di fiducia che con tutta probabilità si baserebbe sulle astensioni (alla Camera) e sulle assenze dall’aula al Senato (dove l’astensione è equiparata al voto contro). È di tutta evidenza che sarebbe una soluzione debole, capace di resistere fino alla fine dell’anno. Farebbe la nuova manovra finanziaria e dovrebbe favorire il formarsi in parlamento di una maggioranza che voti una nuova legge elettorale. Meglio di niente.

Insomma, alla vigilia del voto non ci resta che sperare nel metodo socratico e nel ruolo maieutico di Mattarella. Tutto il resto sarà fuffa.

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