Patti di governo prima del voto
DIAMO IL VOTO SOLO A CHI DICE FIN D’ORA SE E CON QUALI FORZE DOPO LE ELEZIONI FARÀ PATTI DI GOVERNO
19 gennaio 2018
Gira e rigira, si finisce sempre lì. Anche in queste elezioni, come per tutte quelle che si sono succedute dal 1994 in poi, il dilemma riguarda il grado di contrapposizione delle diverse forze in campo. È più opportuno che la lotta politica e il contrasto delle identità sia massimo, esaltato fino allo scontro (per quanto verbale), oppure è preferibile che sia manifesti una certa condivisione d’intenti, che si lasci la porta aperta a possibili collaborazioni, se non addirittura che le si auspichi anche in campagna elettorale? Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro.
Per molti anni i cultori del bipolarismo ci hanno ammorbato con l’esaltazione della prima delle due ipotesi, salvo dover poi prendere atto – tardi e non tutti – che la contrapposizione “militare” (aggettivo) che ha caratterizzato la Seconda Repubblica ha prodotto inutili lacerazioni ma soprattutto ha generato alleanze, chiuse nel corpetto stretto dei due poli, del tutto spurie se non innaturali, pensate solo con l’obiettivo di battere l’avversario (in quel caso “nemico”) ma prive di quei denominatori comuni indispensabili per poter poi, una volta vinte le elezioni, governare. Certo, quel sistema ci ha regalato l’ebbrezza dell’alternanza che la Prima Repubblica – peraltro per precise ragioni storiche e geopolitiche – ci aveva negato. Ma, come noi ci siamo sforzati di ripetere senza sosta e, almeno inizialmente, in scarsissima compagnia, oltre ad essere una sensazione drogata, perché quella era un’alternanza “obbligata” – nel senso che centro-destra e centro-sinistra non casualmente hanno sempre perso l’elezione successiva a quella vinta, proprio perché incapaci di governare – si trattava di un regime politico che ha portato il Paese alla crisi più grave della sua storia repubblicana. Fallito quel sistema con l’emergere di una terza forza, i 5stelle, e per di più di “rottura”, e con la caduta traumatica del governo Berlusconi nel 2011, si è andati – purtroppo alla cieca – alla ricerca di un nuovo equilibrio, del tutto impropriamente chiamato Terza Repubblica, ancor più di quanto fosse improprio chiamare Seconda quella nata nel 1994. Il risultato di questa ricerca è stato fin qui improduttivo, per non dire disastroso. Infatti, questa stagione, che noi abbiamo chiamato “Seconda Repubblica bis”, ha generato nei sei anni della sua durata, una sequela di fallimenti o sciagure. Nell’ordine: la nascita e subitanea morte di una forza terza (Scelta Civica di Mario Monti); la rottamazione, causa giusta ma evocata male e praticata peggio; l’incontro tra forze diverse, sciupato dall’opacità del “patto del Nazareno” e dalla sua prematura scomparsa; la riforma costituzionale, altro giusto obiettivo rovinato con un referendum sbagliato nel metodo e nel merito; il suicidio del Pd renziano; la nuova legge elettorale, capace di riuscire nel difficile intento di sommare gli aspetti negativi del sistema proporzionale e di quello maggioritario, cancellando quelli positivi. Traiettoria che si conclude, ora, con un’assurda campagna elettorale che, inevitabilmente, porterà ad una fase di stallo carica di pesanti incognite.
Ma proprio perché è diffusa la consapevolezza che il combinato disposto tra il discredito, ulteriormente cresciuto, di cui godono le forze politiche presso i cittadini e le cervellotiche contraddizioni delle norme di voto, non designerà il 5 marzo alcun vincitore, che è tornata prepotentemente sulla scena la domanda da cui siamo partiti: esaltare le differenze o cercare le convergenze? Noi, come si potrà immaginare, siamo per il secondo corno del dilemma – non per vocazione consociativa, anzi, ma per fredda analisi della realtà e delle necessità che da essa si ricavano – ma siamo costretti a constatare che tutti i politici battono la prima strada e che quasi tutti gli osservatori la prediligono. Tutti in nome della sacra avversione all’inciucio. I partiti dicono: ora dobbiamo prendere i voti distinguendoci, guai a evocare strani incroci. Gli analisti, con l’aria di voler fare i puristi, commentano: guai a produrre unioni eterogenee che scoppierebbero subito dopo le elezioni, meglio un maschio confronto-scontro tra diversi. Il risultato è che da un lato le alleanze disparate ci sono ugualmente – il centro-destra mette insieme un Berlusconi neo-merkeliano con i sovranisti anti euro di Salvini e della Meloni, impossibile connubio destinato o svanire il giorno dopo del voto o a costringere una delle due parti a tradire se stessa – e dall’altro, il più probabile esito elettorale, la mancanza di un vincitore e la conseguente paralisi che ne può derivare, resta privo di una qualunque risposta politica. Ma lasciare esclusivamente al dopo voto il compito di affrontare la questione se fare alleanze diverse da quelle elettorali, e quali, oltre ad essere segno di irresponsabilità e motivo di scarsa trasparenza verso gli elettori (proprio quella che si evoca quando si proclamano i no agli inciuci), è anche il miglior modo per renderle improbabili o, ammesso che si facciano, assai fragili.
Ha dunque ragione da vendere l’inascoltato Sabino Cassese quando afferma che occorre saper ritrovare – perché la politica italiana possedeva questa qualità ma l’ha smarrita da oltre un quarto di secolo – il “talento per i patti di governo”, senza avere paura della negoziazione e del compromesso, senza cadere nella trappola, concettuale e semantica, della riduzione a inciucio deteriore e sconcio di qualunque forma di accordo. Il prossimo governo sarà, o non sarà, quel che le forze parlamentari elette sapranno costruire, incontrandosi, negoziando e “compromettendosi”. Da ciò ne discende che è stupida, oltre che costituzionalmente scorretta, la pratica dell’indicazione dei cosiddetti candidati premier che tutti fanno o vorrebbero fare (chi non lo indica è perché non ce l’ha). E questo non solo perché la scelta spetta al Presidente della Repubblica ed è scorretto far credere agli elettori che invece tocchi a loro (sono comunque sempre meno quelli che ci cascano, come dimostra l’aumento esponenziale del numero di astenuti consapevoli), ma perché è di ostacolo allo svolgimento positivo del dopo voto.
In questi giorni in molti stanno cercando quella che potremmo chiamare la “condizione indispensabile” di voto: concedo il mio consenso solo a quelle forze che si impegnano senza se e senza ma per questa o quella questione. Per esempio, taluni stanno dicendo: votiamo solo chi è a favore dell’Europa. Poi si può discutere quale Europa e con quali mezzi la si raggiunge, ma si deve esprimere senza incertezza alcuna la preferenza all’integrazione continentale. Ecco, a noi viene la voglia dire: diamo il voto solo a chi smette di esaltare il proprio isolamento, di partito o di coalizione che sia, e dice fin d’ora che è disponibile senza riserve a dare un governo al Paese, accettando la filosofia dei “patti” come regola del gioco necessaria, rinunciando esplicitamente a demonizzarla come inciucio, e di conseguenza cercando fin dalla campagna elettorale, pur senza rinunciare a spiegare agli elettori le proprie specificità, i terreni di possibile convergenza e sottolineando le affinità che pure esistono. È una tentazione forte, quella che abbiamo. Sapendo però che rischia di farci scoprire che non c’è nessuno, ma proprio nessuno, che afferri questa bandiera e s’impegni a onorarla.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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