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L'editoriale di TerzaRepubblica

In Sicilia il voto è nazionale

IN SICILIA IL VOTO SARÀ NAZIONALE PIÙ PER I VINTI CHE PER I VINCITORI RENZI SI GIOCA LA PELLE IL PAESE LA GOVERNABILITÀ

03 novembre 2017

Domenica si vota in Sicilia, ma il test ha valenza nazionale. Non tanto per chi vince, quanto per chi perde. Per il Pd in particolare, visto che le aspettative di tutti – compreso Matteo Renzi e i massimi dirigenti del partito – sono che andrà incontro ad una sonora batosta. Ma sarà l’entità della sconfitta – il candidato Micari arriverà terzo o quarto? – a determinare le conseguenze politiche più generali. Se, come alcuni temono e altri sperano e molti sondaggi autorizzano a ipotizzare, si trattasse di una disfatta, allora gli esiti finirebbero per essere di pari entità anche sul Pd e il suo segretario. È auspicabile un simile scenario? Per certi versi sì, per altri proprio no. Sì se si pensa a quanto abbia pesato (il referendum, con il Paese fermo per un anno) e pesi (il ricatto elettoralistico al governo Gentiloni, da Bankitalia alle pensioni) la politica renziana. La gran parte degli italiani aveva accolto con entusiasmo la rottamazione, avendo maturato un profondo senso di disillusione circa uomini e pratiche della Seconda Repubblica – fino a provare nostalgia per la Prima – e volendo resistere alla tentazione dell’astensione o del voto dato ai populisti per rabbia. Renzi avrebbe dovuto usare quel capitale di consenso per ridare serenità al Paese, per fare scelte rigorose e anticonformiste e per mostrarsi lungimirante e inclusivo. Invece ha fatto l’esatto contrario. E quando le aspettative tradite gli hanno presentato il conto (4 dicembre), anziché capire la lezione ha caricato a molla il suo ego e coltivato il rancore, finendo per perdere il favore anche di chi aveva votato Sì al referendum. I reiterati tentativi (per fortuna andati a pallino) di anticipare le elezioni, la legge elettorale scritta dal suo sodale Rosato (non solo una schifezza con qualche profilo di incostituzionalità, ma anche politicamente sbagliata) e le pressioni su Gentiloni (per usare le parole del Presidente Napolitano), il tutto condito da un linguaggio populista che lo rende distinguibile dai 5stelle solo perché li ha presi come nemici, sono poi i tanti e più recenti motivi che rendono auspicabile che al Pd renziano venga impartita una lezione.
Nello stesso tempo, se il risultato siciliano fosse per Renzi molto pesante e se si rivelasse la premessa di una batosta nazionale, sarebbe un problema serio. Perché del Pd ci sarà bisogno subito dopo elezioni, e i suoi parlamentari saranno indispensabili per formare una qualche maggioranza che dia un governo al Paese. E ritrovarselo troppo indebolito rischia di rende vano ogni tentativo. Per evitarlo, Renzi dovrebbe fare tre cose. Una è quella che gli ha suggerito Carlo Calenda: invece di raccontare che grazie a lui l’Italia ha cambiato verso – perché il verso non l’ha ancora cambiato e quel poco, la ripresa economica per ora solo congiunturale, non è certo per merito suo – faccia un’operazione verità, dicendo la gravità dei problemi strutturali che abbiamo e indichi, ecco la seconda cosa da fare, la strada da percorrere, lanciando un progetto decennale di rilancio e rinascita, scevro da qualunque faciloneria e tentazione populista. Infine, crei una squadra di uomini e donne che rappresentino agli occhi degli italiani le persone ideali per tradurre in fatti le scelte programmatiche. Non un “giglio magico” di amici e parenti, ma un nucleo di gente credibile in cui Renzi sia uno dei tanti. E questo ben prima del voto, perché non appaia come un’operazione di puro marketing elettorale. Se però Renzi così non facesse – e le sue recenti dichiarazioni circa la convinzione di poter raggiungere il 40% lo fanno temere – allora, per il bene non solo del Pd ma anche del Paese, altri in quel partito dovrebbero assumersi la responsabilità di farlo. E subito.
Per capire il valore dell’analisi che stiamo facendo, occorre ragionare su tutti gli scenari possibili. Il Corriere della Sera, per mano di Massimo Franco, ci suggerisce di riflettere sull’ipotesi che dopo aver votato a marzo si torni a farlo a giugno, dopo aver preso atto di una impasse totale. È certamente lo scenario peggiore, tanto più se tra un voto e l’altro il parlamento non dovesse trovare la forza (della disperazione) di cambiare la legge elettorale. Ma è uno scenario plausibile, e non poco. Escludendo dal novero delle altre possibilità tre casi “impossibili”, ne rimangono quattro teoricamente plausibili. I tre si riferiscono al fatto che i soggetti del nostro sgangherato tripolarismo possano autonomamente conquistare la maggioranza dei seggi: non può essere per i 5stelle che non hanno alleati, né per i vecchi centro-destra e centro-sinistra, difficili da mettere insieme e comunque impossibilitati a fare bingo. Rimangono gli altri quattro scenari. Due sono basati sull’ipotesi che i grillini risultino il partito con più voti e che per non perdere la chance, una volta ottenuto un mandato esplorativo dal capo dello Stato, facciano cadere la loro preclusione verso le alleanze. In un caso la possono fare a destra accordandosi con Salvini ed eventualmente Meloni – e per la Lega sarebbe una via di fuga dall’abbraccio con Berlusconi – nell’altro caso si volterebbero alla loro sinistra per incontrare tutto ciò che sta oltre il Pd (ed eventualmente anche il Pd se de-renzizzato), magari coordinato dall’ormai ex democrat Pietro Grasso, che i pentastellati potrebbero anche accettare come possibile presidente del Consiglio. Dipende dai numeri, ma siamo pronti a scommettere che quale delle due li avesse per formare una maggioranza, l’operazione riuscirebbe. La terza ipotesi è che Pd e Forza Italia uniscano le forze in nome della governabilità. È lo scenario più probabile, specie se Renzi rimanesse in sella, ma anche quello che faticherebbe a raggiungere la fatidica soglia del 50% più uno, a meno che oltre a Berlusconi alla compagnia si aggiungano anche Salvini e Meloni, cosa che renderebbe indigesta l’operazione a gran parte del Pd – che rischierebbe di spaccarsi ulteriormente – e non facilmente digeribile agli stessi capi di Lega e Fratelli d’Italia. Infine c’è l’ultima ipotesi, quella più alternativa all’immediato scioglimento delle camere e conseguente ritorno alle urne. Parliamo di quello che in gergo viene già definito “governo del Presidente”, con riferimento a Mattarella, un esecutivo (molto probabilmente a tempo) in cui sarebbero chiamate ad entrare tutte le forze parlamentari che se ne rendessero disponibili. Chi ci starebbe? Molto dipenderebbe dal nome del presidente incaricato. Lo stesso Grasso? Giuliano Amato? Mario Draghi? Potrebbero starci tutti, senza eccezione alcuna. Oppure potrebbero sfilarsi le forze più estreme, e in quel caso non sarebbe improbabile vedere i 5stelle spaccarsi tra responsabili e oltranzisti.
In tutti i casi stiamo parlando di situazioni maledettamente complicate, che richiedono tempo e pazienza. E che chiamano in campo gli aggregatori, non i rompitutto. Ma ne riparliamo dopo la Sicilia.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.