Attenti al labirinto dei populismi
TRA SOVRANISMO ANTI-EUROPEO E SECESSIONISMO ALLA CATALANA L’ITALIA RISCHIA DI PERDERSI NEL LABIRINTO DEI POPULISMI
06 ottobre 2017
Preda di convulsioni crescenti, che non fanno presagire nulla di buono circa la necessaria ricucitura del rapporto fiduciario con gli italiani e dunque per l’esito delle sempre più prossime elezioni (in Sicilia e nazionali), la politica italiana non pare riflettere intorno ad un fenomeno, la riarticolazione dei populismi, che invece rischia di travolgerla. La vicenda catalana ci dice, infatti, che a fianco delle spinte nazionalistico-sovraniste, che in Europa si sono molto irrobustite ma non fino al punto da impedire di essere sconfitte ovunque (Austria, Olanda, Francia, Germania), si potrebbero profilare spinte localistico-secessioniste che, assumendo caratteri indipendentisti, rischiano di mettere pericolosamente in contrapposizione la libera espressione della volontà democratica con la legalità discendete dallo stato di diritto. Si tratta di due fenomeni diversi, per non dire opposti. La tendenza sovranista è radicalmente nemica dell’Europa, della moneta unica e, a maggior ragione, di qualunque forma di ulteriore integrazione continentale. Viceversa, quella separatista è saldamente europeista, perché vede le piccole patrie inserite (e protette) nel grande contenitore europeo. Ma allo stesso tempo, entrambi i fenomeni sono accomunati dall’avere alla base il rigetto degli establishment, l’ostilità verso le classi politiche tradizionali, il desiderio di identità (vere o artificiali che siano) che funzionano come antidoto alle grandi paure di oggi (il terrorismo e le immigrazioni incontrollate molto più che le difficoltà economiche e la disoccupazione). Si potrebbe essere tentati di etichettare come più di destra le prime pulsioni e di sinistra le seconde, ma si sbaglierebbe perché si tratta di fenomeni – pur ricorrenti nella storia – che le tradizionali categorie della politica faticano a imbrigliare. Lo dimostra il fatto che un altro elemento comune a sovranismi e secessionismi è il rifiuto dei processi di globalizzazione, che non a caso entrambi i fronti chiamano di “omologazione” – gli uni rifiutano l’omologazione sovranazionale, gli altri quella nazionale – rifiuto che attraversa gli schieramenti politici e le ascendenze culturali tradizionali finendo per mischiare le parole d’ordine dei movimentismi di sinistra, dai no-global di Porto Alegre fino ai sostenitori di Syriza in Grecia e di Podemos in Spagna, con quelle dei fronti nazionalistici di destra, euroscettici e xenofobi quando anche anti-capitalisti. Un impasto che ha trovato sbocco nella Brexit e che, sul piano concettuale, trova nel populismo di stampo peronista di Papa Bergoglio la sintesi più gettonata.
Che c’entra l’Italia con tutto questo? Si è discusso a lungo se l’antipolitica dei grillini fosse la versione italiana di tutto questo. La risposta ancora non c’è, anche perché i 5stelle sono ora l’una ora l’altra delle tendenze che abbiamo esaminato, e spesso nessuna. Poi si è cercato di catalogare la nuova Lega di Salvini, che ha abbandonato l’opzione autonomistica, quando non secessionista, per quella sovranista. Operazione politicamente ardita, ma che dimostra la contiguità di fondo tra le due opposte spinte. L’arma che viene brandita è quella dei referendum, giustificata qui dalla presunta superiorità della democrazia diretta rispetto a quella rappresentativa, allo stesso modo con cui in Catalogna si è giustificata la consultazione popolare sul distacco di quella regione dalla Spagna con l’esaltazione della “autodeterminazione dei popoli”. Ma i referendum, pur avendo diverse regolamentazioni nazionali, non consentono mai – come è giusto e democratico che sia – il rovesciamento dei dettati costituzionali. L’Italia, per esempio, non potrebbe diventare una monarchia o mettere in discussione la moneta (con buona pace di chi si vuole sbarazzare dell’euro via consultazione popolare), così come le aspirazioni autonomistiche possono al massimo sfociare in pronunciamenti consultivi. E tali saranno i referendum che Lombardia e Veneto, governate da due leghisti, hanno sentito il bisogno di indire per il prossimo 22 ottobre, sfruttando la demagogica introduzione nella Costituzione, con la riforma del 2001 del Titolo V voluta dalla sinistra nella infondata speranza di sottrarre voti all’allora Lega Nord, del voto consultivo sulle autonomie. Ora, invece di superare l’anacronistico (e nel caso della Sicilia, autolesionistico) status di regioni a statuto speciale di alcune parti d’Italia, l’idea sarebbe quella di aggiungere all’elenco anche le due più importanti realtà del Nord.
Sul piano politico, la cosa mette in rilievo la contraddizione del partito di Salvini, che spinge l’autonomia padana proprio mentre sposa – anche con l’evidenza comunicativa degli abbracci a Marine Le Pen o degli osanna per il 13% preso da Alternative für Deutschland alla ultime elezioni tedesche – il sovranismo nazionalista in chiave anti-europea. Contraddizione su cui dovrebbe riflettere Berlusconi e, soprattutto, coloro che in Forza Italia spingono per un’alleanza organica con la Lega in nome del “centro-destra unito”. Quando si sventolano certe bandiere e si cavalcano certi fenomeni si sa dove s’inizia ma non dove si va a parare. Specie se nel farlo si usa pericolosamente l’equazione “urne=democrazia” – la storia, recente e meno, ci offre vari esempi di dittature con voto – facendo credere che qualsiasi decisione possa essere sottoposta al giudizio del popolo. Non a caso – ha giustamente notato Giovanni Orsina sulla Stampa – l’impatto emotivo delle immagini di Barcellona, frutto anche di gravi errori politici del governo di Mariano Rajoy, ha spinto i 5stelle a sposare la causa secessionista catalana, con la stessa facilità e senza temere di cadere in contraddizione, con cui difende l’integrità nazionale quando si parla di immigrazione.
Detto questo, la nostra preoccupazione è un’altra. In tutta Europa (e non solo) i populismi albergano e s’irrobustiscono. Che ci siano anche in Italia, dove, nell’ultimo quarto di secolo la crisi economica è stata più forte e il sistema politico-istituzionale si è progressivamente rattrappito, è fisiologico. Quello che ci spaventa, invece, è che altrove le forze politiche a vocazione di governo non inseguono sul loro stesso terreno i populisti perché si assumono la responsabilità di fare le scelte necessarie, anche quelle apparentemente impopolari, mentre da noi è pratica quotidiana. È difficile chiedere agli italiani di non ascoltare le sirene populiste se poi i primi a fare i populisti sono stati il centro-destra di Berlusconi e il centro-sinistra, prima quello delle ammucchiate uliviste e poi, soprattutto, quello renziano. Non a caso altrove i Macron e le Merkel vincono, mentre da noi…
L'EDITORIALE
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