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L'editoriale di TerzaRepubblica

Meglio l'IVA del voto anticipato

PER EVITARE IL VOTO ANTICIPATO C’È LA FERMEZZA DI MATTARELLA (E L’AUMENTO DELL’IVA SUBITO)

02 giugno 2017

Ammesso, e non ancora concesso, che Renzi, Berlusconi e perfino Grillo (ci sarebbe da ridere se non fosse che c’è molto da piangere) siano davvero d’accordo, sulla legge elettorale “finto tedesca”, ma soprattutto su l’anticipo delle elezioni, qui comunque si stanno facendo i conti senza l’oste. Che nello specifico porta il nome di Sergio Mattarella. Il quale, pur non avendo affatto il profilo del predecessore, e sentendosi autenticamente una “autorità disarmata”, anzi proprio per questo, non intende per nulla al mondo cedere un centimetro delle sue prerogative costituzionali, a partire da quella che lo vede decisore assoluto e solitario dello scioglimento delle Camere. E chi pensasse diversamente, commetterebbe un errore di valutazione politica tanto marchiano quanto fuorviante.

Ergo, non è affatto detto che se anche le nuove regole elettorali fossero approvate in tempo utile (tra fine giugno e luglio) per andare alle urne in autunno, il presidente della Repubblica proceda a chiudere la legislatura senza colpo ferire. Anzi, per dirla meglio, è assai probabile che giocherà ogni carta possibile per evitare quello che tutti o quasi pensano sia un passo avventato e per di più privo di ogni utilità (anche e forse soprattutto per chi lo sollecita) e logica politica. Perché finora, al di là della voglia di rivincita di chi ha perso il referendum dopo esserselo interamente intestato – questione che ha a che fare più con la psicanalisi che con la politica – nessuno ha mai spiegato perché dovremmo anticipare di 4-5 mesi la naturale scadenza della legislatura. Forse anche perché nessuno dell’attuale maggioranza ha mai esplicitamente rivendicato fino in fondo il presunto diritto.

Ma quali carte ha in mano il capo dello Stato, oltre la (non trascurabile) moral suasion? Diverse. Intanto avrà buon gioco a respingere al mittente la valutazione secondo la quale una nuova legge elettorale deve necessariamente comportare l’immediato scioglimento delle Camere. Prima di tutto perché una manciata di mesi non sono un tempo indefinito, ma ragionevole, se con essi si completa la legislatura e si compie in modo regolare la sessione di bilancio autunnale (non è casuale che si voti sempre in primavera). E poi perché il sistema di conteggio dei voti di cui si parla è con tutta evidenza un rabberciamento dei due mozziconi di legge rivenienti dalle sentenze della Corte Costituzionale, non una nuova legge elettorale che segna una netta discontinuità nel sistema politico, come fu nel 1994 quando Scalfaro mandò a casa il governo Ciampi.

Al di là di questo, e di altro, la vera questione su cui Mattarella può far leva per frenare i pruriti del voto anticipato è quella della manovra economica. Mentre si consolidano i timidi segnali di ripresa – sia i segnali sia la loro timidezza – scompaginare la sessione di bilancio che prevede di essere presentata entro il 15 ottobre per poi essere ratificata entro la fine dell’anno, sarebbe puro avventurismo. Tanto più che stavolta, anche al netto di ulteriori dosi di flessibilità che l’Europa dovesse concederci, la manovra non potrà che essere molto impegnativa. Insomma, di quelle che nessun politicante ha voglia di intestarsi, abituati come si è a considerare le cose serie elettoralmente improduttive, se non dannose. Sbagliando, perché in realtà Monti aveva grande consenso quando all’inizio del suo governo aveva messo le mani sul sistema pensionistico, mentre lo ha perso in seguito quando non ha continuato e soprattutto non ha saputo dare una prospettiva politica alla sua azione; viceversa Renzi il 40% alle europee non lo prese per gli 80 euro, che non hanno cambiato la vita a nessuno, ma per aver saputo offrire una speranza di cambiamento, che poi, una volta delusa, ha determinato la sua sconfitta nonostante le varie elargizioni.

In ogni caso, ora i nodi della finanza pubblica sono venuti al pettine, ed è nella prossima manovra finanziaria che andranno sciolti. Di qui l’idea di chi si sente già di ritorno a palazzo Chigi di procrastinare a dopo il voto il letale appuntamento con la verità. Peccato che questo sia pericoloso, e non tanto per l’Europa – il rapporto con la quale andrà una buona volta regolato diversamente da quello che ci vede alternativamente (quando non contemporaneamente) genuflessi o (e) strafottenti – quanto per i mercati, che non vedono l’ora di poter tornare a menare le mani come nel 2011. Anche perché, non è affatto detto che l’esito del voto garantisca una qualche governabilità. E se dovesse scattare l’esercizio provvisorio di bilancio, è evidente che saremmo messi nudi al cospetto della speculazione finanziaria, con tutto quello che può significare per la nostra già gracile ripresa economica.

Per questo, ci permettiamo di indicare al presidente Mattarella una strada che può o evitare le elezioni anticipate perché spaventa chi le vuole, o rivelarsi una forma di tutela nel caso malaugurato che alla fine si sia costretti ad andare alle urne in autunno: far decidere l’aumento dell’Iva dal governo Gentiloni, subito. Detta così può suonare male, ma la proposta ha una sua logica. Come sapete, l’Italia ha accettato clausole di salvaguardia in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi di risanamento dei conti pubblici, tra cui un aumento dell’Iva pari a 19 miliardi per il 2018 e 23 per il 2019. A nostro avviso, piuttosto che cercare scappatoie o rabberciare manovrette, tanto vale riorganizzare le aliquote Iva, come peraltro hanno già fatto molti altri paesi, Germania in testa. Anche perché a Bruxelles indorare la pillola con la “narrazione”, stile #italiariparte, stavolta non ce lo fanno fare. E se proprio si deve rompere con l’Europa, tanto vale farlo sulle banche per sconfiggere il “partito del bail-in” che si annida tra Bruxelles, Francoforte e Berlino, ed evitare la catastrofe – non solo economica, ma anche politica – di dover mettere in risoluzione le due banche del Nordest o, peggio, il Montepaschi. Inoltre, qualcuno nel governo (i ministri Padoan e Calenda), Bankitalia e Confindustria avevano già rilanciato la proposta dell’Ocse di un innalzamento delle aliquote Iva anche ai fini di uno taglio del cuneo fiscale, anche se poi le barricate erette un po’ da tutti, Pd renziano in testa, hanno fatto accantonare l’idea.

Eppure, l’aumento dell’Iva avrebbe il pregio di far lievitare un poco l’inflazione – ne abbiamo bisogno, dopo la ventata deflazionistica dei mesi scorsi – aiuterebbe a svalutare un pochino un debito pubblico che continua a crescere (nel 2017, secondo la Commissione Ue, ciò avverrà solo in Italia), rendendo meno onerosi gli interessi proprio ora che lo spread è tornato a 200 punti e che si intravede la fine della politica monetaria espansiva della Bce. Inoltre, graverebbe meno sui costi di produzione e dunque sull’export, unico vero traino della nostra economia. Certo, ritoccare le aliquote Iva non fa bene ai consumi. Su questo la Confcommercio ha ragione. Ma qui si tratta di valutare quale sia il male minore. Le simulazioni di Confindustria ci dicono che i danni maggiori derivano dal cuneo fiscale, non dall’Iva. E non dobbiamo nemmeno dimenticare che in Italia abbiamo quattro aliquote (al 4%, al 5%, al 10% e al 22%), mentre, per esempio, in Germania solo due (al 7% e al 19%) e che, quindi, una riorganizzazione è opportuna. E questa può essere l’occasione buona. Anche perché la differenza tra gettito Iva potenziale e reale è intorno ai 40 miliardi, e questa “tassa occulta” va in qualche modo colpita. Insomma, se per evitare il rincaro dell’Iva si tagliano gli investimenti pubblici, aumentano le tasse sul lavoro e sugli immobili, si (s)vendono i gioielli di Stato, per poi distribuire i soldi a pioggia per comprare consenso, ben venga l’Iva. E ben venga come argine alle follie di una politica che non ha ancora capito che prezzo gli italiani intendano farle pagare alle prossime elezioni. Tanto più se anticipate.

 

 

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