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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il pasqualismo degli italiani

LA POLITICA DA RIGENERARE IL PARTITO CHE (ANCORA) NON C’È E IL “PASQUALISMO” DEGLI ITALIANI

08 aprile 2017

Gli italiani sono affetti da “pasqualismo”. Cos’è? Il termine l’ha coniato Renzo Arbore, e nasce da una famosa gag di Totò, nella quale il grande De Curtis racconta alla sua spalla di sempre, Mario Castellani, di aver incrociato uno che lo riempie di schiaffi e lo apostrofa malamente, chiamandolo Pasquale. Allora l’amico chiede a Totò come avesse reagito. E lui: “mi sono detto, vediamo un po’ ‘sto stupido dove vuole arrivare”. E giù ancora botte. Invece di difendersi, Totò ride, e a Castellani che gli chiede “ma perché non hai reagito?”, risponde: “e chissenefrega, che so’ Pasquale io!”. Arbore dice che in tanti davanti alla tv fanno come Totò: si beccano qualunque cosa, per vedere fino a che punto possono arrivare a rifilare schifezze. È cosa grave, ma noi temiamo anche di peggio: che di fronte a qualunque cosa la politica rifili, la gran parte degli italiani, anche i migliori, finiscano per imitare Totò. Il “pasqualismo” è far finta che non ci riguardi, che “Pasquale” sia qualcun altro e chissenefrega se “quelli là” ne combinano più di Bertoldo. Sì, per carità, il mugugno non se lo fa mancare nessuno, magari caricato di una bella dose di qualunquismo. Ma non è quello che serve.

La situazione è grave. L’Italia ha imboccato la strada del declino ormai da un quarto di secolo, e nell’ultimo decennio, complice una recessione senza precedenti, la decadenza ha accelerato la sua progressione. Il Paese è sfibrato, sfiduciato, tendenzialmente rinunciatario. È persino un paese in fuga: i giovani in cerca di lavoro, i quarantenni in cerca di soddisfazione e i pensionati in cerca di un buen retiro che assicuri tranquillità, tutti scappano sperando di trovare quello che l’Italia non da più. Anche perché tutto ciò che sta nella sfera pubblica è preda della deresponsabilizzazione burocratica, che a sua volta produce immobilismo e inefficienza. E il capitalismo privato, pur essendo ancora percorso da fremiti – voglia di fare e spirito di innovazione – si è progressivamente avvizzito, frenando gli investimenti e rinunciando alla grande dimensione, oltre ad essere da sempre vittima della atavica incapacità di fare sistema. In più, tutte le istituzioni, le periferiche ancor più di quelle centrali, hanno progressivamente perso ruolo e autorevolezza, finendo per sopravvivere a se stesse in una pura logica di auto-legittimazione corporativa.

Insomma, il Paese non funziona, e in questo quadro il sistema politico e i suoi interpreti invece di essere la soluzione sono diventati il problema dei problemi. Il largo uso della bugia, della reticenza o della narrazione fantasiosa – per (presunta) furbizia ma ancor più spesso per ignoranza crassa – ha generato aspettative fuori luogo, anziché la consapevolezza della gravità, dimensione e profondità dei problemi strutturali che abbiamo accumulato. E il populismo dilagante – che non riguarda soltanto i 5stelle e il duo Lega-FdI, ma attraversa tutti i partiti, dal Pd a Forza Italia – è figlio di questo cortocircuito, per cui nascondendo o minimizzando i problemi e generando attese fuori misura, poi, di fronte alla insoddisfazione che generano le aspettative andate deluse, si risponde sparandole sempre più grosse, cosa che crea ancora più sfiducia, con un micidiale effetto moltiplicativo. A populismo, populismo e mezzo, sembra essere la logica (si fa per dire) con cui si muove la politica. Cui gli italiani – finora – hanno risposto, appunto, con il “pasqualismo”. È una spirale che va fermata prima che sia troppo tardi.

La prossima legislatura sarà quella decisiva. Se dalle urne dovessero uscire vincitori Grillo e i suoi pentastellati – o perché superano la quota necessaria a conquistare il premio di maggioranza o perché sono il primo partito e dunque ricevono il mandato esplorativo dal capo dello Stato e in Parlamento trovano e accettano i voti mancanti, a sinistra (Bersani) o a destra (Salvini-Meloni) che sia – che dunque formano e guidano un governo, magari con un Davigo presidente del Consiglio, per noi, e per l’Europa, sarebbe l’inizio della fine. Per carità, niente di non democratico: se hanno i voti è più che legittimo che governino. Cionondimeno, si tratta di una circostanza che va assolutamente scongiurata, se non vogliamo cadere dalla padella nella brace. E per scamparla occorrono due circostanze: che moderati e riformisti, pur nelle sacrosante distinzioni, cerchino fin d’ora terreni comuni, e che nel farlo smettano di praticare i populismi e scimmiottare i populisti come stanno facendo da troppo tempo. Non si abbia paura dell’accusa di inciucio, che tale non sarà se si saprà essere chiari con gli elettori: ciascuno cerca i voti per sé, ma si dice prima chi in linea di principio è praticabile per le alleanze che si renderanno necessarie e chi è assolutamente impraticabile.

Perché questo accada è però necessario che nel sistema politico si crei e si affermi una forza di centro priva di preclusioni ideologiche sia a sinistra come a destra, fatto salvo il presidio di alcuni principi fondamentali, tra cui il rifiuto senza se e senza ma del sovranismo anti-europeo. Una forza cerniera, capace di fare da anello di congiunzione tra quelli parti della sinistra e della destra più capaci di sottrarsi alle spire populiste. C’è da ereditare il 10% che fu di Scelta Civica di Mario Monti, c’è da riconquistare al voto una fetta importante della borghesia, grande e piccola, che negli ultimi anni ha compiuto la scelta dell’astensione consapevole. E c’è, infine, da mettere insieme i cocci di vari soggetti moderati che da soli rischiano di non superare le soglie di sbarramento. Qualcosa si muove, come Energie per l’Italia di Stefano Parisi, che però a nostro avviso ha commesso l’errore di collocarsi in un centro-destra che come tale non esiste più dopo le scelte leghiste e di quel ch rimane di An. Ora può darsi che l’augurabile sconfitta della Le Pen in Francia e l’auspicabile ribellione di ciò che rimane della vecchia guardia leghista, magari supportata da due pedine importanti come Bobo Maroni e Luca Zaia, ponga un freno o addirittura metta fine alle ambizioni bonapartiste di Salvini, ma ciò non toglie che il duo sovranista è andato troppo avanti perché sul piano politico e programmatico si possa far finta di niente. Occorre dunque ragionare nell’ottica di un divorzio definitivo tra Berlusconi e ciò che sta alla sua destra, e se questo sarà il lavoro di Parisi, ben venga. Ma lo spazio da coprire è decisamente più grande. Alfano si sta muovendo nella logica di modernizzare il suo gruppo, dandogli una bella rinfrescata. Bene. E altri soggetti, nell’area più laica, stanno provando a prendere le misure. Inoltre, molti hanno individuato nel ministro Carlo Calenda una risorsa, oggi priva di casacca, e dunque di vincoli politici, capace – per qualità, leadership, età e relazioni – di aggregare risorse sia della politica ma soprattutto della società. Vedremo se e come deciderà di muoversi.

Due cose sono certe: lo spazio potenziale, sia politico che elettorale, è enorme; la necessità di una forza capace di essere aggregante ma nello stesso tempo programmaticamente radicale, è assoluta. Ma qui è la società, e in particolare le sue eccellenze di ogni campo, ma anche gli interessi organizzati (o quel che rimane di essi, ahinoi) da cui è lecito attendersi un sussulto. Senza il quale saremo tutti colpevoli, quando ci si dovesse accorgere che è troppo tardi.

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