La resa del nostro capitalismo
ALTRO CHE ELEZIONI SUBITO QUI C’È DA FRONTEGGIARE LA RESA DEL NOSTRO CAPITALISMO E LA FUGA DEL RISPARMIO
27 gennaio 2017
Ai fini del governo del Paese, è più importante la decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale, di cui tutta la politica e buona parte dei media sembrano occuparsi in modo spasmodico al fine di indicare o pronosticare la data delle prossime elezioni, oppure le conseguenze dello spread a 175-180 punti, sui massimi dal 2015, di cui nessuno parla, e della possibile scalata straniera a Generali, che è oggetto più di gossip che di analisi? Con tutta evidenza, nella domanda è insita la risposta: come al solito l’Italia sbaglia le priorità.
Per carità, è ovvio che non è secondario dover registrare la bocciatura dell’Italicum da parte della Consulta, sia perché rappresenta l’ennesima sconfitta di Renzi sul fronte delle riforme istituzionali – e per molti versi è peggio farsi respingere una norma per manifesta incostituzionalità che per scelta democratica dei cittadini – sia per le implicazioni politiche che essa comporta. Ma francamente, noi ci sentiamo più preoccupati dalle tante emergenze che il Paese vive. E per le quali non crediamo che la ricetta sia rappresentata dalle elezioni anticipate, la cui unica giustificazione starebbe in un’eventuale manifesta incapacità del governo Gentiloni di saperle affrontare, queste emergenze.
Prendiamo le due questioni prima segnalate, che sono poi due facce della stessa medaglia. È evidente che l’Italia – che cresce ad una velocità che è metà di quella europea, che a sua volta è metà di quella mondiale – viene vissuta come l’anello debole del traballante sistema continentale e dunque viene ritenuta a rischio (vedi spread) e “scalabile”, nel senso che è il momento giusto per tentare di portar via i gioielli grandi e piccoli del suo capitalismo. Non giriamoci intorno: siamo sotto attacco, né più né meno di come lo siamo stati nel 2011, quando cadde Berlusconi sotto i colpi del differenziale dei tassi di interesse rispetto alla Germania sui titoli di Stato. I mezzi di offesa sono un po’ diversi, ma il risultato non cambia. E come allora la colpa non è degli altri, di chissà quali oscuri complotti, bensì nostra, della nostra incapacità di stabilire la giusta gerarchia dei problemi e organizzare loro delle risposte, concettuali e pratiche. Semplicemente, gli altri approfittano delle nostre debolezze e delle nostre distrazioni. Fanno i loro interessi, siamo noi che non facciamo i nostri.
Guardate la vicenda Generali: tutti lì a giocare al risiko, a tifare per Mediobanca, Unicredit o Banca Intesa, o a scommettere se ce la porteranno via i francesi di Axa, i tedeschi di Allianz o gli svizzeri di Zurich. Nessuno, o quasi, che rifletta sul fatto che nel portafoglio della prima compagnia assicurativa del Paese ci sono 70 miliardi di Btp, e che i soggetti finanziari stranieri hanno già in mano una cifra enorme del nostro debito pubblico. Banche, assicurazioni e gestori di risparmio francesi, per esempio, ne controllano per un centinaio di miliardi, e se Generali dovesse cambiare nella bandiera il verde con il blu del tricolore si arriverebbe a 170 miliardi, l’8% dell’intero stock di debito. Solo i francesi, con quella cifra, sarebbero in grado di condizionare qualunque governo italiano: pensate cosa succederebbe se decidessero di vendere in blocco e all’improvviso i titoli, o se non partecipassero al rinnovo dei bond in scadenza.
Inoltre, c’è un tesoro che fa gola alla finanza internazionale: il risparmio degli italiani. La Banca d’Italia stima che la nostra ricchezza – solo di liquidità e asset finanziari, escludendo quindi l’enorme patrimonio immobiliare – sia intorno ai 4 mila miliardi, di cui oltre la metà affidati in gestione o a gestori stranieri o a fondi italiani che però ne investono l’80% oltre confine. Ergo, la ricchezza degli italiani, formatasi negli anni anche per gli interessi elevati pagati sul debito pubblico, va a finanziare le economie altrui. Insomma, è foltissima la schiera di avvoltoi che volteggiano sul debito dello Stato e sulle ricchezze dei cittadini. Per questo non ci sembra affatto protezionista, né tantomeno sovranista – parola che tanto piace alle zucche vuote nostrane che scimmiottano la signora Le Pen – chi si preoccupa di questo tema senza timore di non superare l’esame del sangue sulla quantità di liberismo che gli circola nelle vene.
Sappiamo che in sede di governo il ministro Calenda, che per primo era intervenuto di fronte alla scalata di Vivendi a Mediaset e che sta fronteggiando il governo francese che si oppone ad un’acquisizione di Fincantieri oltralpe, ha posto con forza la questione di un intervento pubblico a difesa delle società italiane più strategiche. E sarebbe bene che Gentiloni e Padoan lo ascoltassero e si mostrassero più risoluti. Non servono dichiarazioni, ma fatti. Come? Renzi a suo tempo aveva indicato nella Cassa depositi e prestiti lo strumento della nuova politica industriale. Ora si tratta di passare all’azione. Sarebbe forse scandaloso se Cdp prendesse “quote dissuasive” in alcune realtà più esposte, a cominciare da Generali?
Noi pensiamo di no, vista la posta in gioco. E pazienza se Bruxelles avrà da ridire: meglio litigare per scelte come questa che piagnucolare per avere il via libera all’ennesimo sforamento del deficit corrente che serve a finanziare spesa pubblica improduttiva, magari a fini elettorali.
Sarà pure criticabile che l’Ue pretenda una pesante correzione dei conti, dopo che due mesi fa ha salvato Francia e Spagna, ma quale credibilità può vantare la nostra politica economica e una classe politica che si divide sui fondamentali? Quale giudizio pensate possano avere cancellerie e mercati che ci guardano mentre il principale partito di governo – per bocca di un segretario che ad un congresso probabilmente non sarebbe rieletto – e la principale forza di opposizione all’unisono chiedono di andare a votare con due “mozziconi” di leggi elettorali per Camera e Senato, tra loro coerenti solo se si fa uno sforzo di fantasia, entrambe figlie di norme bocciate dai giudici supremi? Lo capite che andremmo al voto con due leggi di tipo proporzionale (per fortuna) ma derivanti da due norme di stampo iper-maggioritario perché basate su (pessimi) premi di maggioranza che nel caso della Camera rimangono in vigore anche se con soglie che non sono raggiungibili? E se qualcuno il 40% lo raggiungesse?
In tutto questo il Parlamento invece che avere un sussulto, che andrebbe ben oltre l’orgoglio perché in gioco c’è la sua stessa essenza, dovrebbe mostrare a cittadini che già per metà non sono più disposti ad andare a votare e per l’altra metà sono orientati a dare oltre il 40% dei voti a forze populiste (5stelle, Lega e Fratelli d’Italia), la sua resa di fronte alla necessità conclamata di scrivere una normativa di voto coerente e di stampo europeo? Non crediate che queste cose non siano notate e valutate da chi ha già di suo la tendenza a considerarci un mercato di consumo dove farla da padroni.
Insomma, elezioni anticipate senza una nuova legge elettorale votata dal Parlamento sono possibili, perché il sistema, come ha (con troppa enfasi) sottolineato la Consulta, è immediatamente applicabile, ma applicarlo davvero sarebbe da irresponsabili. Chi milita in quest’ultimo campo è ben individuato. Ora si devono palesare con coraggio quelli con la testa sul collo. Sapendo che la vera distinzione la fanno due cose: il Parlamento che vota una nuova legge elettorale e il Governo che tira fuori gli attributi. Attendiamo speranzosi.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.