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L'editoriale di TerzaRepubblica

Referendum bugiardo

REFERENDUM BUGIARDO, IL SÌ NON È LA FINE DELLA DEMOCRAZIA E NON È IL CAOS SE VINCE IL NO

29 settembre 2016

 

Adesso basta, fermiamoci in tempo. La più lunga campagna elettorale della storia repubblicana, quella per il referendum costituzionale, che invece di iniziare oggi e durare due mesi (e già sarebbero troppi) è in atto da almeno un semestre, si è via via caricata di una quantità industriale di fesserie che è urgente e indispensabile gettare al macero – nella speranza che di qui al 4 dicembre non se ne producano di nuove – se si vuole che quale sia il risultato della consultazione non si producano nefaste conseguenze per il Paese. Proviamo a sgombrare il campo, elencandone schematicamente alcune, nell’auspicio che serva ad una riflessione più meditata in vista del voto.

La prima e più grave scempiaggine che circola, alimentata in egual misura da entrambi i fronti, è che la vittoria del Sì e del No produrrà effetti a dir poco drammatici. Non è così: non cadrà la democrazia se vincerà il Sì, l’Italia non precipiterà nel caos se prevarranno i No. Sono entrambe forzature propagandistiche indegne di un paese moderno (per quanto anche quelle cui assistiamo per merito di Donald Trump e Hillary Clinton non scherzano). La posta in palio del referendum non è la fine del mondo. Tra l’altro si tratta di argomenti così forzati da suscitare l’effetto opposto a quello che ciascuno di quelli che li maneggiano si propongono di ottenere. Per dirla più brutalmente: il rancore di D’Alema e la difesa della Costituzione così com’è in nome dei valori della Resistenza (vedi il ruolo giocato dall’Anpi) portano acqua al mulino del Sì; l’evocazione di una nuova Brexit che procurerà all’Europa il collasso definitivo, con le Borse che crollano e gli spread che volano, porta acqua al mulino del No.

A questo è collegata una seconda bufala che circola allegramente: votate a favore perché altrimenti rimarremo senza governo e a Renzi non c’è alternativa. A parte che anche quest’argomento (ricatto) ci sembra più favorire la tesi avversa che quella per la quale milita, ma la cosa è priva di fondamento. Il giorno dopo il referendum, se vincerà il “no”, ci sarà crisi di governo se e nella misura in cui Renzi avrà fatto coincidere la traiettoria sua e del suo esecutivo con questa riforma – ed è scelta sua, che non può essere messa moralmente in conto a chi ha intenzione di votare No – e se riterrà di rimettere il mandato nelle mani del Capo dello Stato. Il quale, per cultura istituzionale e stile personale, non ha alcuna intenzione di imporglielo. Si dice: ma così Renzi sarà comunque debole, e gli italiani non hanno interesse ad avere un presidente del Consiglio debilitato. Vero. Ma pensate forse che un politico che avesse imposto al Paese una riforma di tale portata (e che sia di grande portata lo sostiene Renzi stesso, ricordandocelo un giorno sì e l’altro pure) non perché sia convincente nel merito ma perché da essa si fa ricavare la sopravvivenza del governo (anche questa per scelta del medesimo) sia davvero un leader forte? E non c’è argomento come quello della (presunta) insostituibilità per certificarne l’estrema debolezza: sto al governo perché non c’è nessun altro. Come a dire che appena si palesasse uno che dicesse “eccomi qui” (come fece Renzi dopo aver detto di stare sereno a Letta) giocoforza lui si dovrebbe fare da parte. No, non è così che si costruisce la stabilità e la governabilità.

Un’altra “forzatura doppia” è poi quella di dire che chi vota No è a favore dell’attuale bicameralismo (leggi Angelo Panebianco) e, viceversa, quella di dire che chi vota Sì intende violentare la Costituzione, che invece va assolutamente mantenuta così com’è (leggi Gustavo Zagrebelsky). Nel primo caso valga la nostra posizione: noi siamo più che favorevoli al superamento dell’attuale sistema parlamentare, ma riteniamo che il modo proposto per cambiarlo sia sbagliato e che possa produrre danni maggiori di quelli che pure si hanno a conservarlo. Non è un caso che ben prima che a Renzi venisse in mente di fare questa (sgrammaticata) riforma abbiamo proposto (e continuiamo a proporre) un’Assemblea Costituente con lo scopo di rivedere – organicamente, non a pezzi – l’intero impianto istituzionale, ormai obsoleto. Dunque, caro Panebianco, non ci sentiamo affatto conservatori, né per il solo fatto che rispondiamo No all’appello referendario dobbiamo essere messi a forza nello stesso “partito” di coloro che votano contro perché ritengono che comunque la carta fondamentale sia inviolabile. Tra l’altro, è falsa sia la storia che se non si fa questa riforma non ce ne potrà più essere un’altra per secoli – non si fa questa per farne una migliore – sia la favola dell’irreversibilità del nuovo sistema se dovesse prevalere il Sì, perché una revisione più ampia della Costituzione e degli assetti istituzionali rimarrebbe comunque necessaria. Basti pensare a questo: se passa la riforma, avremo (giustamente, anche se debolmente) controriformato in chiave meno federalista il titolo V della Carta, ma ci saremmo inventati il Senato delle autonomie locali. Una contraddizione che andrebbe comunque sanata.

Infine, una riflessione attenta merita la questione della legge elettorale e del suo incrocio con la riforma costituzionale. Anche qui si sparano balle a raffica. Dai sostenitori del Sì abbiamo sentito dire sia che le due cose sono assolutamente disgiunte e indipendenti, sia l’esatto contrario. Altrettanto da quelli del No. Inoltre si ipotizza che il fronte del No sia proporzionalista (anche questa è un’apodittica affermazione di Panebianco) e quello del Sì favorevole al sistema maggioritario. Forse questo vale per i partiti – fermo restando che da ciascuno di loro nel corso degli anni abbiamo sentito proporre ogni tipo di modalità di voto – ma non certo per gli elettori, che solo in un’esigua minoranza hanno interesse a tecnicalità da addetti ai lavori. Ma al di là di questo, vorremmo che qualcuno ci spiegasse quale relazione c’è tra un cattivo bicameralismo, come quello che uscirebbe dalla riforma, e il maggioritario, e viceversa quale tra il bicameralismo paritario di oggi e il proporzionale (che oggi non c’è). Noi per esempio, siamo per una Camera e un Senato elettivi e con funzioni differenziate, e per una legge elettorale alla tedesca, in cui la rappresentanza piena viene mitigata da una soglia di sbarramento alta (che rappresenta la migliore e più equa forma di premio di maggioranza, seppure indiretto): dove stiamo nello schema rigido che ci viene propinato? Da nessuna parte.

La realtà è che il dibattito politico odierno, anche quando coinvolge esimi professori, è intriso di preconcetti e falsità. Il referendum non è affatto una svolta epocale. In nessuno dei due casi, e a maggior ragione se il Sì e il No dovessero prevalere per un pugno di voti, magari con la quota di astensioni ancor più alta delle ultime consultazioni. Né può esserlo, epocale o anche solo importante, un appuntamento in cui una parte ci chiede di votare Sì usando biechi argomenti dell’anti-politica e l’altra di votare No per regolare i conti con l’attuale inquilino di palazzo Chigi o, peggio ancora, del Nazareno. Noi, come dimostra la livida condizione della nostra economia, ci stiamo sempre più avviluppando in un declino inesorabile, ma ci viene raccontato – e taluni ci credono – che la chiave per fermarlo stia nella scheda in cui dovremo rispondere ad un quesito, peraltro scritto in modo ridicolo. Non è così. Anzi, la pochezza della riforma e degli argomenti pro e contro che la circondano è il segno che il declino prosegue inarrestabile.

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