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L'editoriale di TerzaRepubblica

La mano di Mattarella

TRA REFERENDUM E LEGGE ELETTORALE S’INTRAVEDE LA MANO DISCRETA (MA DECISIVA) DI MATTARELLA

16 luglio 2016

Meno male che c’è Sergio Mattarella. Con la discrezione che gli è propria, il presidente della Repubblica sta svolgendo una diuturna e preziosa opera di contenimento degli errori (ormai seriali) di Matteo Renzi, e di faticosa compensazione delle conseguenze del rapido consumarsi del credito che il presidente del Consiglio si era conquistato due anni fa e che le elezioni europee avevano certificato. Non capendo, pur atteggiandosi a mago della comunicazione, che paga di più una sana autocritica che il voler tenere il punto a tutti i costi, Renzi non si è dato per vinto neppure dopo l’esito disastroso delle amministrative, su referendum costituzionale e legge elettorale, costringendo così Mattarella a lavorarlo ai fianchi per spingerlo su una strada meno disastrosa – soprattutto per il Paese, delle sue fortune personali poco importa – di quella in cui si è infilato. Sempre in silenzio, il capo dello Stato ha cominciato a far passare l’idea che il referendum debba tenersi solo dopo che la legge di Stabilità abbia passato il vaglio di almeno una delle due camere, se non addirittura alla fine del suo percorso parlamentare. Di qui le voci su una data di novembre. Cosa, questa, che darebbe il tempo alla Corte Costituzionale di pronunciarsi sull’Italicum. E siccome Mattarella sa bene cosa i suoi ex colleghi sono intenzionati a dire – e cioè che il meccanismo di voto non ha i requisiti di costituzionalità e la legge va rifatta, esattamente come per il Porcellum, a cui peraltro somiglia come una goccia d’acqua – ecco che verrebbe sgombrato dal campo della battaglia referendaria l’elemento del cosiddetto “combinato disposto”.


Infatti, la parte preponderante di coloro che sono per il NO – e noi siamo tra questi – hanno questa posizione per la contrarietà all’effetto perverso che produce il sommarsi della riforma del Senato con la legge elettorale che prevede il premio di maggioranza e il doppio turno per la Camera. Non solo. Il pronunciamento negativo della Corte sull’Italicum, oltre a costringere a riscrivere daccapo la legge e non semplicemente a introdurre la variante del premio alla coalizione e non più alla lista, toglierebbe di mezzo le ragioni politiche per cui si è ripensato così il Senato – dandolo in mano alle Regioni proprio mentre si vuole, giustamente, controriformare in senso più centralista il titolo V – e questo potrebbe indurre Renzi ad accettare le pressioni di chi gli chiede, anche tra la fila del Pd renziano e della maggioranza di governo, di ripensare la riforma o quantomeno di accogliere l’idea (non casualmente sempre più gettonata, nel mondo politico e in quello accademico) dello spacchettamento dei quesiti referendari.
D’altra parte, l’Italia ha un disperato bisogno di incrementare tanto la governabilità quanto l’efficienza e l’efficacia del Parlamento. E non può ottenere questo risultato forzando la mano a scapito dell’uno o dell’altro obiettivo, che vanno perseguiti insieme. Mentre il combinato disposto tra l’Italicum e il finto smontaggio del bicameralismo paritario non va in nessuna delle due direzioni, perché il premio di maggioranza (sempre, ma tanto più come lo assegna la legge appena entrata in vigore) rende illusorio l’aumento di capacità decisionale (vinci ma non governi) e penalizza la funzione di rappresentanza e di proposta del Parlamento, riducendone ancor più la già bassissima funzionalità. Il timore, quindi, è che alla fine ne esca vincitrice l’antipolitica, sia perché l’Italicum è il mezzo più sicuro per mandare i 5 Stelle a palazzo Chigi, sia perché non si sarà affatto sanata, anzi, la frattura tra elettori ed eletti. Ed è un timore che un uomo della storia politica e culturale, oltre che della prudenza caratteriale, di Mattarella non può non avere presente e orientarlo a fare quelle scelte che taluni gli rimproverano di non aver fatto fin qui.


Ma se tutto questo il presidente della Repubblica lo sta facendo o lo farà, non sarà certo per una scelta di campo nei confronti di Renzi – che finora ha saggiamente evitato di giudicare – bensì per risparmiare al Paese una crisi politica che, evidentemente, giudica sarebbe esiziale. Di fronte a questi passaggi, fatti con mano felpata ma decisa, Renzi ha due possibilità: o si lascia guidare da Mattarella sulla strada di questo generale reset e smonta, in un modo o nell’altro, il referendum, sapendo che da quel momento in avanti non sarà più palazzo Chigi ma il Quirinale – seppure con modi ben diversi da quelli di Napolitano – a dettare l’agenda politica; oppure punta i piedi, come ha fatto finora (o almeno, fino a qualche giorno fa), e si gioca il tutto per tutto sapendo che a quel punto, se dovesse inciampare, Mattarella non potrà più allungare la mano per evitargli la caduta.
Difficile dire cosa farà Renzi. Di certo sappiamo che se scegliesse la prima opzione userebbe la testa, se optasse per la seconda la pancia. In tutti i casi, è evidente che non può più essere lui, o comunque solo lui, il perno intorno a cui costruire l’alternativa al populismo grillino e leghista. E questo comunque vada a finire la partita interna al Pd. Così come è evidente che la “nuova” centralità del Quirinale è destinata a pesare sullo scenario politico in modo determinante. Poi tutto dipenderà se avrà prevalso la testa o la pancia.

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