Le banche sono il nuovo spread
LE BANCHE SONO IL NUOVO SPREAD E RENZI È COME BERLUSCONI DEL 2011. SIAMO A UN PASSO DAL PUNTO DI NON RITORNO
09 luglio 2016
L’estate del 2016 è come l’autunno del 2011? Per trovare una risposta a questa domanda, che non ha nulla di meteorologico, consigliamo i nostri lettori di andarsi a rileggere l’editoriale del Corriere della Sera del 30 ottobre di cinque anni fa, a firma Mario Monti (*in fondo alla pagina trovate il link). Si trattava di una “lettera aperta” a Silvio Berlusconi da parte di chi di lì a poco gli sarebbe succeduto alla presidenza del Consiglio. Monti in quello scritto rimproverava a Berlusconi alcune affermazioni sull’euro e sull’Europa, figlie della tensione generata dalla pressione che in quel momento il capo del governo osservava impotente sui nostri titoli di Stato e che il termometro dello spread registrava impietosamente, in un contesto europeo che aveva già vissuto la prima crisi greca ed era attraversato da tensioni fortissime. Neppure due settimane dopo, il 12 novembre, il Cavaliere era costretto a dare le dimissioni recandosi mestamente al Quirinale, cui era arrivato in mezzo a due ali di folla che gli avevano riservato un trattamento analogo a quello cui era stato sottoposto Bettino Craxi il 30 aprile 1993 (le famose monetine alla sua uscita dal Raphaël). Ogni tanto la storia andrebbe riletta e studiata, per capire esattamente il momento che si vive. Ecco, allora, che i fatti di questa settimana, trovano incredibili analogie con quelli dell’autunno 2011, quando l’allora premier, in altre faccende affaccendato e privo di un briciolo di lucidità, non capì, se non quando era troppo tardi, che quello che stava accadendo sui mercati finanziari lo avrebbe di lì a poco travolto. E questo nonostante che l’avvertimento gli fosse stato pubblicamente recapitato addirittura da chi stava già studiando da premier. Oggi il nuovo spread ha la forma della quotazione in Borsa delle banche, ma gli effetti sistemici che è in grado di generare sono identici. Anzi, per certi aspetti anche più traumatici e gravi perché toccano in modo più diretto l’economia reale, tanto più in un capitalismo bancocentrico come il nostro. E lo scenario appare incredibilmente uguale a quello di cinque anni fa: si parla d’altro – allora erano le abitudini sessuali di Berlusconi, oggi sono i (presunti) guai della famiglia Alfano e di ciò che rimane dell’Ncd – mentre la fiducia, interna e soprattutto internazionale, si consuma come una candela. Manca ancora l’editoriale del nuovo Monti, ma in fondo quello era un dettaglio, un vezzo dell’allora presidente della Bocconi: anche se non ci fosse stato, il governo Berlusconi sarebbe caduto lo stesso. “Era tutto orchestrato, la manovra speculativa sui mercati fatta apposta per mettere in condizioni Napolitano di fare il blitz”, dicono i berlusconiani. Può darsi, anche se noi non abbiamo mai creduto all’ordito. Ma una cosa è certa, attacco o non attacco: Berlusconi cadde perché fu impotente di fronte alla realtà. Lo fu sia perché non seppe leggerla, capirla, sia perché non ebbe la capacità di mettere in atto alcuna reazione. Le sue furono inutili lamentazioni e stucchevoli rassicurazioni che era tutto sotto controllo. La speculazione finanziaria va fermata, non catechizzata.
E Renzi, oggi? Ha di fronte a sé l’avvitamento del nostro sistema bancario, che ha sicuramente dei torti ma certo non si è scelto le assurde regole europee cui è sottoposto, e che sono all’origine, insieme con la colpevole acquiescenza con cui gli ultimi governi hanno accettato una cosa giusta fatta male, l’integrazione bancaria europea, e una cosa sbagliata nelle condizioni date, la regola cosiddetta del bail-in. La cosa dura da tempo, come dimostra il fatto che quasi tutti i titoli bancari, compresi quelli degli istituti meglio messi, hanno perso uno sproposito. Dopo la Brexit la caduta complessiva del settore è stata del 29%, mitigata solo nella seduta di ieri, venerdì 8 luglio. Ma dall’inizio dell’anno ci sono banche che hanno perso oltre il 70% di valori che già erano lontani dall’effettiva consistenza dei loro bilanci. Inoltre, in questi mesi è scoppiato il caso dell’Etruria e delle altre tre banche fallite, c’è stato il crollo delle due venete, Vicenza e Veneto Banca, e si è assistito all’umiliante processione dei banchieri italiani a Francoforte, sottoposti ad esami e oggetto di ordini perentori come studenti asini. All’assemblea dell’Abi, il presidente Patuelli ha spiegato con dovizia di particolari come l’Unione bancaria e la conseguente Vigilanza Unica non possano efficacemente funzionare, anzi possano creare danni gravi, senza testi unici in materia bancaria e finanziaria, del diritto societario e fallimentare, del diritto penale dell’economia e dei principi contabili. E ha ricordato, Patuelli, che mentre regole come il bail-in – di cui noi abbiamo il torto di aver approvato senza neppure renderci conto di cosa si trattava e cosa avrebbero comportato – gli altri (leggi Germania e paesi nordici) pretendono che in Italia vengano applicate senza batter ciglio, al contrario l’assicurazione europea dei depositi, terzo pilastro fondamentale dell’Unione bancaria, quegli stessi altri pretendono di non farla partire.
Ma se la qualità dell’atteggiamento del governo in questa delicatissima partita si deve dedurre dalle parole, povere nel contenuto e prive di quel pathos necessario nelle circostanze difficili, recitate in modo svogliato dal professor Padoan di fronte ai banchieri riuniti in assemblea – il racconto trito e ritrito delle cose fatte, e la dichiarazione di essere confidente sui fondamentali di lungo termine (sic) dell’economia italiana – allora possiamo già trarre la conclusione che la partita è persa. Renzi continua a rassicurare i risparmiatori, abbaiando a Roma senza poi minimamente mordere quando è a Bruxelles e Berlino. Invece che volare a Francoforte e andare a chiedere a Mario Draghi – con l’umiltà personale che sarebbe necessaria – di fargli sponda nella comune difesa degli interessi nazionali, trova il modo di ribadire la sua antipatia verso il numero uno della Bce.
Occorrerebbe avere il coraggio in sede europea di fare riferimento all’articolo 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione – che consente aiuti di Stato in circostanze eccezionali e che, avendo rango di norma costituzionale, può essere opposto alla direttiva che i tedeschi e la Ue impugnano per bloccare le possibili iniziative a favore delle nostre banche – così come andrebbe sollevato in modo fermo e pubblico il tema del fondo unico di garanzia dei depositi. Andrebbe anche messa in discussione la pratica cervellotica degli stress test, anche a costo di doversi difendere davanti alla Corte di Giustizia. Insomma, andrebbe preso il toro per le corna, senza indulgere in pratiche demagogiche ma con la fermezza politica di chi conosce i suoi diritti e la credibilità che deriva dal saper difendere gli interessi leciti del proprio Paese. Si dovrebbe, ma non è così. E si rivedono le stesse scene del film di cinque anni fa.
Pur scettici, avevamo chiesto a Renzi, anche in compagnia di suoi sostenitori come Giuliano Ferrara, di smetterla di recitare se stesso e di spendere “parole nuove”, di aprire un nuovo capitolo della sua stagione politica. Nell’interesse del Paese, ma anche suo personale. Non possiamo dirci delusi solo perché non ci eravamo fatti nessuna illusione. Anche se, lo confessiamo, credevamo di poter almeno far conto sulla (indiscutibile) scaltrezza dell’uomo. Ma ormai è conclamato: il renzismo è fatto di parole d’ordine già ascoltate, di strali contro critici e oppositori, trattati in egual modo come nemici, di litanie sul quanto si è fatto (della serie: mai nessuno come noi…). Così si va dritti a sbattere contro una crisi politica esattamente come quella dell’autunno 2011. E lo diciamo senza alcun compiacimento, perché siamo coscienti che si entrerebbe in un tunnel di cui non si conosce l’uscita. Ma, come insegna la storia che è sempre maestra, le cose accadono perché le si lasciano accadere. E ormai siamo a un passo dal punto di non ritorno.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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