Brexit e Renzit
LA FORTUNA CHE BREXIT GLI HA REGALATO DIVENTERA' UN BOOMERANG SE RENZI NON SMETTE DI RECITARE SE STESSO
01 luglio 2016
Matteo Renzi è un uomo (apparentemente) fortunato. La Brexit, con tutta quella carica dirompente degli avvenimenti che colgono di sorpresa, ha sparigliato le carte in Europa e cambiato la scena – quantomeno mediatica – in Italia, rivoluzionando la gerarchia delle percezioni e delle attese. E siccome le pagine che sono state voltate dal vento inglese erano cariche di cattive notizie per Renzi e brutti presagi per il cammino del suo governo, specie dopo l’esito finale delle amministrative, ecco che dire che le ultime novità internazionali siano state un vero e proprio colpo di fortuna per il nostro presidente del Consiglio, non è affatto esagerato. Compreso il voto spagnolo, che ha inequivocabilmente dimostrato che quando scatta nei cittadini la consapevolezza dei rischi che si corrono a dar troppo sfogo alle proprie rabbie premiando le forze anti-sistema (in questo caso sono bastate le 48 ore di panico post-Brexit per ridimensionare Podemos), è automatico il ritorno all’ovile dei partiti tradizionali. Motivo di rassicurazione per Renzi, che era partito rottamatore e ora, dopo solo due anni, rischia di essere rottamato come uomo di establishment per mano di chi, in preda a paura per la caduta di consolidate certezze, vuole affidarsi ad altro e ad altri. E la fortuna di Renzi è misurabile anche dal fatto che Berlino e Bruxelles, pur con molti limiti, gli hanno dato il via libera al sistema di difesa delle banche che (tardivamente) l’Italia si è data. Anzi, avendolo concesso obtorto collo, e per di più platealmente, gli hanno persino consentito di apparire colui che finalmente ha messo a tacere quella cattivona della Merkel.
Ma la fortuna, si sa, va saputa gestire, perché fa presto a trasformarsi in un boomerang. Specie se, per presunzione e arroganza, non la si riconosce come tale e la si confonde con le proprie capacità e astuzie. E Renzi, ahinoi, il rischio di credersi non in debito con la dea bendata, lo corre. Eccome, se lo corre. Molti sostengono che al di là della solita ostentazione di sicurezza, l’uomo avrebbe perfettamente capito la lezione, e si starebbe orientando a cambiare modalità comunicativa, in modo da recuperare l’iniziale profilo di chi è lì per cambiare le cose, costi quel che costi. Altri aggiungono che potrebbe fare un passo in più, e fare un bel ricambio di ministri, prendendo atto che una delle sue maggiori debolezze è la (insipida) squadra di governo. Qualcuno si spinge persino a ipotizzare una discontinuità politica, sia sotto il profilo del programma di governo (“se ha vinto le europee con gli 80 euro, da là occorre ricominciare”) sia sotto il profilo delle alleanze (apertura alle minoranze interne al Pd, ripresa del dialogo nazareno con Berlusconi, secondo lo schema Confalonieri). Infine, il partito degli ottimisti pronostica che alla fine Renzi su referendum (spostare la data più avanti) e Italicum (premio alla coalizione e non più alla lista) finirà per essere il classico cane che abbaia (“non si cambia niente”) ma non morde, acconsentendo alle richieste che gli piovono un po’ da tutte le parti.
Non sappiamo se sarà così. Molti argomenti militano a favore della tesi che vuole, quantomeno dopo la pausa estiva, un Renzi “nuovo”. Mentre contro ne milita uno solo, ma di gran peso: il carattere di Renzi, quell’infantile arroccarsi intorno alle proprie incrollabili certezze, quell’esser vittima di una presunzione pressoché infinita. Nell’uno come nell’altro caso, però, non sono queste le strade che possono consentire al premier di capitalizzare la fortuna. Anzi. Perché se anche dovessero avere ragione coloro che si dicono sicuri che Renzi, facendo violenza a se stesso, si spoglierà delle vesti di superman calzate finora, ci vuole ben altro per invertire la tendenza negativa certificata dal risultato delle amministrative e ipotizzata dai sondaggi sul referendum. Cosa? Renzi dovrebbe fare almeno cinque mosse. Una da segretario del Pd, una da leader in quanto tale, le altre tre da presidente del Consiglio. La prima è semplice: ammettere di avere sbagliato a voler accorpare le due funzioni, e dimettersi da capo del partito. Aprendo una fase congressuale vera, in modo da far assorbire dalle dinamiche interne tutte le spinte e controspinte fin qui concentrate su di lui, e che fino a ieri facevano capo ad una smandrappata minoranza mentre oggi, invece, vanno pericolosamente raccogliendo anche i suoi amici (più o meno fidati, leggi Franceschini). La seconda è una vera rivoluzione copernicana: passare da escludente a inclusivo. Glielo ha chiesto, in un bel intervento al Senato, Maurizio Sacconi, che pure milita nella sua maggioranza, suggerendogli di essere “inclusivo ed aperto all’ascolto” perché “in luogo del circolo vizioso che sta esaltando tutto ciò che ci divide si aprirà il circolo virtuoso che fa riconoscere ciò che ci unisce”. Il riferimento di Sacconi è a quel fenomeno di polarizzazione del consenso che il renzismo dividente ha generato, finendo col favorire la creazione di un anti-renzismo dilagante, di cui i 5stelle sono diventati i maggiori beneficiari.
E veniamo al governo. Se noi fossimo in Renzi faremmo come prima mossa una radicale modifica della politica economica. Basta con la pia illusione che mettere una manciata di quattrini nelle tasche dei cittadini significhi riattivare i consumi e da lì la ripresa. La crescita del pil si ottiene solo con gli investimenti, pubblici (trasformando spesa corrente in spesa in conto capitale) e privati (abbassando il carico fiscale). Dunque, rovesciare il paradigma, e di conseguenza attrezzare una manovra sul debito (mettendo in gioco il patrimonio pubblico) che ci consenta di avere ampi margini di sforamento del deficit corrente. Su questa base, acquisendo la credibilità che oggi l’Italia non ha (a prescindere da chi la governa), sempre se fossimo in Renzi, costruiremmo una proposta strutturale di reset dell’Unione Europea. Non le intemerate (a parole), non le richieste con il cappello in mano (dateci un briciolo di flessibilità in più), ma un’iniziativa poggiata su una leadership forte e autorevole.
Infine, il capitolo riforma costituzionale e legge elettorale. Anche qui, se Renzi vuole davvero dimostrare di aver capito le diverse lezioni che gli sono venute in questi ultimi tempi, a cominciare dallo scriteriato uso del referendum fatto da Camerun, non può e non deve semplicemente metterci qualche pezza, magari accompagnata da uno stizzito “se proprio insistete…”. Naturalmente, non siamo così sciocchi da pensare che dopo aver spiegato per mesi che i suoi cambiamenti istituzionali rappresentano l’antidoto al declino del Paese, ora ci rimetta mano ricominciando tutto daccapo. Lo vorremo, perché pensiamo che l’intervento sul Senato sia una bestialità, ma sappiamo che siamo nel campo dell’impossibile. Ci basterebbe che per depotenziare i dirompenti effetti politici del referendum – che la sua ostinata (e autolesionistica) personalizzazione della consultazione ha messo in moto – facesse propria la proposta che i radicali hanno formalizzato e che noi stessi abbiamo lanciata tempo fa, di uno “spacchettamento” del quesito referendario, in modo da consentire agli italiani di scegliere entrando nel merito dei diversi aspetti della riforma. Siamo pronti a scommettere, per esempio, che la controriforma del titolo V sarebbe votata a grande maggioranza, compresi noi, che pure la avremmo preferita maggiormente accentuata in chiave di riduzione non solo delle funzioni ma anche del numero degli enti locali. Così, se anche dovesse essere battuta – come noi speriamo – la trasformazione del Senato in un dopolavoro per consiglieri regionali, per di più con il delicato compito – come ha spiegato Giulio Tremonti in un efficace articolo sul Fatto Quotidiano – di maneggiare le fondamentali normative comunitarie, ecco che politicamente la cosa avrebbe un effetto limitato, perché compensata da altro di segno opposto. Sarà così furbo Renzi da usare l’umiltà necessaria per fare questa mossa? Sì, se sarà altrettanto scaltro da uscire dal vicolo cieco dell’Italicum, perche le due cose si tengono. Come ha scritto con crudo ma sano realismo Peppino Caldarola, “la sua legge elettorale fa talmente schifo che, per eterogenesi dei fini, lo consegnerà alla sconfitta”. Ecco, Renzi ne prenda atto e, come gli può spiegare bene il professor Pasquino, cambi completamente strada, recuperando nella modalità di voto quella capacità di rappresentare la grande maggioranza della società. Che, oltre ad essere un basilare principio democratico, è una imprescindibile necessità se, oltre a vincere le elezioni e conquistare la maggioranza dei seggi parlamentari, si vuole anche avere un minimo di possibilità e capacità di governare.
Insomma, Renzi smetta di recitare se stesso, prima che sia troppo tardi
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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