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L'editoriale di TerzaRepubblica

La svolta di Marchini

BERLUSCONI COSTRETTO A MOLLARE SALVINI, MA ORA MARCHINI PUÒ IMPRIMERE ALLA POLITICA LA SVOLTA CHE RENZI NON HA DATO

30 aprile 2016

“Dietro la decisione di appoggiare Marchini c’è un calcolo politico che per la prima volta porta Berlusconi a scegliere la ragione invece dell’istinto, l’identità piuttosto che la rendita di posizione”. Pur chiamandola “la scappatoia del funambolo”, persino uno dei suoi più implacabili accusatori come Ezio Mauro riconosce al Cavaliere il merito della “svolta moderata” fatta a Roma, in funzione anti-populisti, sia quelli di stampo secessionista (non più il Nord dal Sud ma l’Italia dall’Europa) di Salvini sia quelli post (?) fascisti della Meloni. Si tratta di un riconoscimento inappropriato. Non perché la scelta di portare Bertolaso e Forza Italia a convergere su Marchini sia sbagliata. Tutt’altro. Pur colpevolmente tardiva, era l’unica cosa sensata che si potesse fare. Ma il merito, se così si può chiamare, non è di Berlusconi, bensì di Salvini. È lui che, “usando” la Meloni, ha scelto di rompere il vecchio centro-destra, con il preciso scopo di emanciparsi definitivamente da Berlusconi. Al quale non è rimasto altro che prendere atto della scelta dell’ex alleato e delle sue ripercussioni elettorali certificate dai sondaggi (l’unica cosa che il Cavaliere legge e capisce). Anzi, il ritardo con cui si è deciso a tirare le conseguenze dei comportamenti altrui, conferma che il vecchio leader questo strappo non avrebbe proprio voluto farlo. Ci è stato tirato per i capelli (si fa per dire).

La verità è che Berlusconi non ha affatto imparato la (amara) lezione della Seconda Repubblica. Non ha capito che per governare il consenso è condizione necessaria ma non sufficiente, e non ha fatto mai, neppure in questa circostanza, una seria autocritica per aver imposto al Paese – lui e gli anti-berlusconiani, uniti dalla stupidità politica e nell’incultura istituzionale – un bipolarismo strabico, preda delle ali a scapito dei “centri”, basato su due poli pensati per vincere le elezioni e realizzare l’agognata alternanza (quella osannata dai Panebianco come una cosa buona in sé, a prescindere dai risultati prodotti) ma strutturalmente impossibilitati a produrre capacità di governo. Si dice: ma le forze più radicali ed estreme, comprese quelle populiste anti-sistema, è più opportuno che stiano dentro alleanze che possano limitarne l’azione (dannosa) piuttosto che libere di agire senza vincoli di coalizione. A parte il fatto che, come ha fatto notare Antonio Polito sul Corriere, un conto è che le leadership di queste coalizioni allargate, tanto a destra come a sinistra, siano saldamente in mani moderate, e un altro è che, come sarebbe nel caso che prevalesse il duo Salvini-Meloni, siano sbilanciate verso le estreme. Ma la vera osservazione da fare è che la crescita del consenso a forze “anti”, così come il moltiplicarsi dell’astensionismo, è fenomeno dovuto proprio ai disastri compiuti dal bipolarismo concepito per vincere e non per governare. Quindi riparare alle conseguenze del malgoverno o del non governo pensando di ricostituire alleanze larghe pur di vincere a questo punto non solo rappresenta la reiterazione di un delitto, ma neppure paga più dal punto di vista elettorale. Anzi, se c’è una cosa che gli italiani hanno apprezzato di Renzi (compresi i moderati che non lo hanno votato) è stata la sua capacità di rompere il tabù per cui i riformisti dovevano per forza tenere unita tutta la sinistra, anche al prezzo di una defatigante e quasi sempre improduttiva ricerca del compromesso politico. Mauro, su Repubblica, si domanda – pur senza convinzione – se dunque quella di Berlusconi sia una scelta matura, basata sulla convinzione che sia bene separare i moderati dai lepenisti. La risposta gli è arrivata in diretta dall’ex premier, che ha invitato gli (ex?) alleati a superare le divisioni in vista delle elezioni politiche “perché solo uniti si vince altrimenti si consegna il Paese alla sinistra”. Una solfa ripetuta come un disco rotto dal 1994. Altro che scelta consapevole!

Tuttavia, nella virata su Marchini c’è del buono che trascende la volontà di Berlusconi. E che può aprire una stagione politica nuova. Perché se nella mossa del Cavaliere c’è solo il disperato tentativo di riacchiappare i suoi vecchi elettori in libera uscita per poi sperare di potersi ripresentare al cospetto degli alleati momentaneamente scappati con un rapporto di forza tale da consentirgli di tornare leader indiscusso, in Marchini c’è ben altra consapevolezza. L’imprenditore romano ha più volte detto che dalla corsa al Campidoglio sarebbe emerso un quadro politico nazionale nuovo, e a quello lavora. Se abbiamo capito il suo pensiero e le ambizioni che lo animano, a Marchini interessano ben più le dinamiche politiche nazionali che quelle romane. Se ci saranno le condizioni ovviamente farà il Sindaco capitolino, ma se così non dovesse essere, uscirà comunque vincente dalla partita. Perché attorno a lui – non a Berlusconi – si potranno coagulare forze, esistenti e potenziali, che guardano al centro del palcoscenico politico e che si possono alleare più facilmente con i riformisti che a loro volta avranno posto delle definitive barriere di separazione dalle varie anime della sinistra old style, dentro e fuori il Pd. Che poi questi riformisti siano capeggiati da Renzi o da altri (Letta?), dipende da Renzi stesso (sta facendo di tutto per autoevirarsi) e dalla capacità (finora quasi nulla) dei suoi antagonisti. Ma non c’è dubbio che la futura governabilità dipende dalla possibilità che le forze di governo battano quelle strutturalmente d’opposizione, e cioè che il futuro Pd (quello attuale ci sembra destinato a perire) e la futura casa dei moderati che Marchini potrebbe costruire si alleino avendo la capacità di far tornare alle urne quegli italiani (tra cui noi) che se ne sono allontanati non per becero qualunquismo ma per il combinato disposto del desiderio di dare una lezione ad un sistema politico nato sbagliato e cresciuto peggio e dell’imperativo categorico di impedire a se stessi di tradurre il voltastomaco in un voto populista purchessia.

Alcuni di voi obietteranno: ma non vi sembra una riedizione del centro-sinistra della Prima Repubblica? Risposta: e allora? A quel tempo si chiamavano democristiani, socialisti e laici, oggi riformisti e moderati, ma la base sociale dei potenziali elettori è, pur con tutti i distinguo dovuti alle trasformazioni socio-culturali, la stessa. Immaginiamo anche un’altra obiezione: ma non sarebbe meglio che il moderato Marchini contendesse al riformista Renzi (o chi per esso) lo scettro del comando, costituendo l’un l’altro un’alternativa costruttiva che tiene lontano gli estremisti dei due schieramenti? Teoricamente. Ma veniamo da due decenni di bipolarismo muscolare e strabico e dal fallimento di larghe intese realizzate senza convinzione (anzi, sotto il ricatto morale che si stesse consumando un atto impuro), cose che unite allo tsunami di otto anni di recessione hanno messo il Paese in ginocchio, svuotandolo di ogni energia reattiva. Ci aspettano, pena una decadenza senza ritorno, quelle riforme strutturali e quei cambiamenti epocali che da un quarto di secolo rifiutiamo ostinatamente. Dunque, più che di virtuose contrapposizioni – che per essere tali comunque richiedono leggi elettorali che certo non sono l’Italicum e riassetti istituzionali che certo non sono l’attuale riforma costituzionale – abbiamo bisogno di volonterose convergenze. Prima ce ne facciamo una ragione, prima usciremo dalla melma.

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