L'Europa che non va
L’EUROPA NON FUNZIONA MA NOI NON ABBIAMO LE CARTE IN REGOLA PER DIRE COME CAMBIARLA
27 febbraio 2016
Chi ha tradito chi? Quando vicende politiche di assoluto valore strategico come sono quelle europee si piegano alle logiche nazionali, tutte tattiche quando non da cortile, e la cronaca prende il sopravvento regalando all’opinione pubblica scene come il battibecco Monti-Renzi o la (finta) rappacificazione Juncker-Renzi, allora è venuto il momento di fare un passo indietro e rivedere il film dall’inizio. Torniamo dunque con due brevi flashback agli anni Novanta e all’inizio del governo Renzi.
Nella fase in cui nasce l’unificazione monetaria europea, sorge nei nostri partner, e in particolare nei tedeschi, l’idea che il debito pubblico italiano rappresenti non solo un, ma il pericolo da cui guardarsi. Difficile dar loro torto per questa diffidenza: nel 1990, poco prima di Maastricht, il nostro fardello era pari al pil e solo quattro anni più tardi era salito al 124%, con interessi passivi (13%) tripli rispetto a quelli medi nell’area euro. Nessuno stava non si dice peggio, ma neppure in modo paragonabile a noi. Un quarto di secolo dopo, presentiamo un debito che è arrivato al 133% del pil e in valore assoluto (2170 miliardi) rappresenta un quinto di quello complessivo dei paesi euro. E questo nonostante i tassi siano crollati (non per merito nostro), gli avanzi primari siano stati costanti e di non piccolo conto e, soprattutto, al netto di un processo di privatizzazione che ci ha visto (s)vendere quasi tutti i gioielli del nostro capitalismo.
Inquadrato storicamente il “problema Italia”, veniamo a due anni fa, quando Renzi sfratta Letta da palazzo Chigi e apre una stagione politica nuova. Accompagnato dal ministro Padoan, il giovane e adrenalinico presidente del Consiglio va a Bruxelles e Berlino e negozia uno scambio politico così concepito: voi concedetemi la possibilità, che non avete dato ai miei predecessori, di agire anche sul denominatore del rapporto debito-pil, e io realizzo quelle riforme strutturali che tanto la destra ignorante quanto la sinistra ideologica non sono mai state capaci di fare. La scommessa era che con una crescita annua della ricchezza lorda del 3,5%-4% – metà da inflazione, riportata dalla Bce verso il 2%, e metà da crescita reale – si sarebbe potuto conseguire una riduzione, seppur lenta, dello stock di debito attraverso la sola erosione realizzata dagli avanzi primari. L’Europa ci concede la flessibilità richiesta, e, di conseguenza, in quella circostanza Renzi non si sogna neppure lontanamente di contestare la Ue e la Germania, e di sostenere che le regole europee debbano cambiare. Anzi, nel frattempo ne ingoia altre, senza proferire parola, decisamente a nostro danno (vedi, per esempio, quelle che precedono e accompagnano l’unificazione bancaria continentale). Anche con un elevato grado di inconsapevolezza, il che però non attenua, ma semmai accentua, le sue responsabilità. A due anni da quella data, il risultato è il seguente: la politica monetaria impedisce alla deflazione di fare disastri, ma non riesce a riaccendere quel fuocherello inflattivo che tanto servirebbe ai conti pubblici italici; la crescita, nonostante circostanze esogene favorevoli come mai prima, è praticamente pari a zero nel biennio renziano (-0,4% nel 2014 e +0,6% nel 2015) anche perché i maggiori margini di spesa sono stati usati per alimentare i consumi (speranza andata inevitabilmente delusa) invece che per incentivare gli investimenti; le riforme, quando possono essere giudicate positivamente, come quella sul mercato del lavoro, hanno effetti limitati e nel medio termine, oppure sono rimaste sulla carta (pubblica amministrazione e giustizia), oppure ancora sono da buttare (quelle istituzionali e la legge elettorale).
È dunque dentro questa cornice storica che va iscritto l’attuale contenzioso europeo, quello che noi intentiamo nei confronti dell’Europa, di chi la guida e di chi la eterodirige, e le accuse che Bruxelles muove a Roma. Valutarlo prescindendo dal passato, remoto e prossimo, è come pretendere che un orbo legga il giornale senza occhiali. Gli altri paesi avranno pure le miopie che gli attribuiamo – anche noi pensiamo che ci siano, sia chiaro – ma non hanno torto nell’avere circospezione, quando non apertamente sfiducia, nei nostri confronti. Per capirlo basta questa semplice riflessione: come si fa a chiedere flessibilità in nome della crescita e poi spendersi il tesoretto mettendo un po’ di soldi in tasca agli italiani (ma sarebbe meglio dire agli elettori) nella presunzione che diventino consumi in misura tale da fare da volano alla crescita economica?
Pensate che gli altri leader europei, che si devono guadagnare il consenso non meno di Renzi, siano disposti a tollerare la paghetta ai diciottenni e cose simili? Non è un caso che il recente rapporto di Bruxelles sull’economia italiana potrebbe essere intitolato “la fiera delle occasioni perdute” e che uno dei passaggi più significativi parli esplicitamente di eccesso di esposizione al rischio sovrano.
Ora, però, le chiassate hanno lasciato il posto al dialogo. Padoan ha redatto e consegnato un ambizioso documento strategico sull’Europa, in cinque punti. Ne siamo contenti, perché da tempo chiedevamo all’Italia di tradurre il mugugno in proposta. E siamo altresì soddisfatti del taglio neo-keynesiano dell’approccio di analisi: crescita e occupazione sono gli obiettivi primari della politica economica comunitaria. In una fase in cui stagnazione e deflazione ci castrano ogni prospettiva, non è poca cosa. Ma ci si ferma lì. Non ci sono indicazioni per una reale revisione del fiscal compact – che noi vorremmo non in chiave di sostegno ai consumi, ma di impegno sugli investimenti – e l’indicazione a favore di eurobond è troppo generica per essere considerabile una proposta operativa. Anche il supporto all’idea di un ministro delle Finanze comune, oltre ad essere a traino di chi l’aveva lanciata per primo (Francia e Germania), ci pare, in assenza di una politica fiscale comune, un boomerang, perché finisce con l'allontanare anziché avvicinare la vera cessione di sovranità necessaria per edificare gli Stati Uniti d’Europa.
Non è un caso, d’altra parte, che nel corso della visita di Juncker a Roma per quella che è stata definita un’operazione “building bridges” – costruire ponti per ricucire con Renzi – il presidente della Commissione abbia sentito il bisogno di sottolineare che Bruxelles “non è un raggruppamento di tecnocrati e burocrati a favore di un’austerità sciocca”. Come a dire che è Roma a fare la pace con Bruxelles, e non viceversa. Il che fa pensare che i conti andranno regolati. Forse non quest’anno, ma certo non oltre il 2017. E se l’economia italiana continua nel trend dell’ultimo trimester 2015, saranno dolori.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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