Mai senza Merkel
BENE LA DISTENSIONE DOPO LE PAROLE DI TROPPO MA RENZI DEVE CAPIRE CHE LA MERKEL È IL SUO MIGLIOR ALLEATO
30 gennaio 2016
Supponiamo che le motivazioni di politica interna, o addirittura elettorali, che sono state attribuite a Renzi dagli avversari e dai maligni nel leggere i suoi attacchi ad Angela Merkel e alla Germania che hanno preceduto il vertice di ieri, apparentemente benevolo, tra i due capi di governo, siano infondate, frutto solo di acredine. È difficile crederlo, ma supponiamo, anzi, diamo per acquisito che il presidente del Consiglio sappia bene che a scrollare certi alberi (accusare l’Europa, e la Germania come paese leader, delle peggiori nefandezze) si finisce per far andare i frutti nel prato dei vicini (i partiti populisti, ben più attrezzati e credibili del Pd nell’usare certe parole d’ordine). Bene. Dunque, lasciamo perdere il pollaio nazionale e stiamo sul piano della politica europea. Ma è proprio su questo terreno che Renzi ci pare abbia clamorosamente sbagliato, tanto da dover essere costretto, nel vertice di Berlino, ad un vistoso atteggiamento conciliatorio che fa inevitabilmente parlare di passo indietro. Rimane il fatto che i primi a subire il danno di questa empasse siamo noi e che negli equilibri esistenti, a Berlino come a Bruxelles e Francoforte, la signora Merkel e il suo governo rimangono i nostri alleati più sicuri (o, se si vuole, i meno peggio).
Qui non si tratta di misurare l’entità di ciò che possiamo avere in cambio – di fatto ben poco, come dimostra la finta soluzione sulla bad bank, il pilatesco rinvio alla Commissione Ue delle decisioni sulla maggiore flessibilità richiesta da Roma, la sordità sulla questione dei gasdotti provenienti dalla Russia (Nord e South Stream) e la testa piegata di Renzi sulla vicenda della Turchia – ma della strategicità delle relazioni tra paesi che condividono medesimi obiettivi. E siccome l’obiettivo numero uno di un paese come l’Italia, debole e appesantito da un debito pubblico alla lunga insostenibile, è (dovrebbe essere) quello di far compiere all’Europa della moneta unica il passaggio dalla metà del guado in cui affoga alla sponda dell’integrazione federale per trovare lì la riposta strutturale ai suoi storici problemi, non c’è dubbio che l’unico alleato è (può essere) la Germania. Anzi, la Germania guidata dalla Merkel, perché se Berlino finisse preda della destra della Cdu guidata dal falco Wolfgang Schäuble non c’è dubbio che la linea non sarebbe più quella degli Stati Uniti d’Europa, seppure in salsa tedesca, bensì quella di un patto tra pochi paesi del Nord che escluderebbe tutti i paesi mediterranei e forse anche la Francia. Un nocciolo duro (“coalizione dei volonterosi”, la chiama lui) che di fatto riproporrebbe la vecchia idea dei Waigel e dei Tietmeyer delle “due velocità” europee. E non è un caso, dunque, che sia uno stretto collaboratore del ministro delle Finanze, il viceministro Jens Spahn, l’autore di un dossier riservato intitolato “Sviluppo dell’Unione economica e monetaria”, in cui si chiede la ristrutturazione automatica del debito pubblico di ogni Paese della comunità che dovesse chiedere assistenza al meccanismo europeo di stabilità, il fondo salva Stati. In altri termini, nel caso un Paese chiedesse un aiuto finanziario ai partners, i suoi titoli di Stato sarebbero automaticamente consolidati, allungandone la durata. E non è una cosa a futura memoria, visto che l’irrigidimento tedesco sulla garanzia comune dei depositi bancari, contro cui si è levata l’opposizione di Schäuble e della Bundesbank, parte proprio dal presupposto che prima di mettere in comune le garanzie sulle banche occorre stabilire che il contribuente tedesco non sia chiamato ad onorare il debito pubblico di un altro Paese e che in caso di crisi finanziaria scatti automaticamente il ricorso alla Troika.
Ora, è del tutto evidente, che questa non sia la linea della cancelliera, ma è altrettanto leggibile il fatto che la sua posizione, specie dopo le vicende di Colonia e le difficoltà insorte sugli immigrati, si sia fatta maledettamente più debole. Eleggerla a propria nemica – come hanno fatto notare molti analisti, da Sergio Romano a Paolo Mieli – è un autogol politico che un fuoriclasse come Renzi non avrebbe dovuto procurarsi. Neppure se a metterlo su quella strada fosse stato Obama (o chi per lui), interessato ad assestare un colpo ad un governo che considera poco amico nella stessa misura lo giudica troppo amico di Putin. Certo, leggere sul New York Times che “Angela Merkel se ne deve andare affinché il suo Paese, e il continente che domina, possa evitare di pagare un prezzo troppo alto per la sua follia da alti principi”, facendo riferimento esplicito alla crisi dei migranti e implicito all’economia, potrebbe aver indotto Renzi ad alzare la voce. Ma crediamo che aver successivamente letto sull’autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung giudizi severi su di lui e il suo governo, con ruvidi riferimenti anche a vicende molto interne come quella dell’Etruria o dell’intenzione (ormai rientrata, a quanto pare) di affidare a Marco Carrai un ruolo nell’attività di cyber intelligence, possa aver fatto capire a Renzi che era meglio mettere la lingua a freno e presentarsi a Berlino con l’aria del bravo ragazzo. Vuoi vedere che a qualcuno (più d’uno) sia venuto in mente di indurre Mario Draghi a rivedere la sua ritrosia a tornare in Italia, allettandolo con un incarico da premier, e che i tedeschi con ciò prendano i classici due piccioni, togliersi dai piedi il fiorentino presuntuoso a Roma e il banchiere troppo monetarista a Francoforte? Certo, si sa, e anche noi lo abbiamo scritto la settimana scorsa, che Mattarella non vuole neppure sentir parlare di una designazione priva di legittimazione elettorale, ma certe cose basta ipotizzarle e farle sapere in giro perché dispieghino il loro effetto. Il fatto che poi si realizzino è quasi secondario.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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