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L'editoriale di TerzaRepubblica

Le tre gambe della politica italiana

TUTTE LE FRAGILITÀ DELLE TRE GAMBE DEL NOSTRO SISTEMA POLITICO E LE (FLEBILI) SPERANZE DI CAMBIAMENTO

16 gennaio 2016

Il sistema politico italiano, ormai tripolare per la sostanziale scomparsa di tutte le forse centriste e intermedie – tanto di ispirazione liberale che cattolica – traballa pericolosamente. Una gamba, quella del Pd, è solida, o se si vuole meno fragile, solo apparentemente. Renzi la controlla ma non la governa, tanto a livello nazionale, dove il partito è ormai ridotto ad essere i soli gruppi parlamentari – a maggioranza con Renzi ma non renziani – quanto a livello regionale e locale, dove il premier non tocca palla fino al punto da aver già messo nel conto di perdere le prossime amministrative (quantomeno per non avere uomini veramente suoi in gara). Inoltre la percezione che i risultati ottenuti dal governo, specie sul fronte decisivo dell’economia, siano decisamente al di sotto di quanto promesso e reiteratamente dichiarato, espone il partito di maggioranza ad un’inesorabile erosione di consensi, per di più accentuata da alcune vicende, come quella della Banca Etruria, che nel clima di caccia alle streghe che permane nel Paese – e che Renzi non ha fatto nulla per rendere meno fobico – rischia di andare ben al di là della sua reale portata.

La seconda gamba, quella del centro-destra, è vittima dello spegnersi della stella berlusconiana senza che né Berlusconi né i suoi abbiano il coraggio di prenderne atto. Cosa che blocca il fisiologico oltre che necessario ricambio e assegna alla Lega di Salvini un ruolo di leadership del tutto improprio. Lungi da fare il “bel gesto” che Giuliano Ferrara gli ha più volte chiesto – interpretando il pensiero di tutti i fedelissimi ragionanti, da Confalonieri a Doris, da Ghedini a Gianni Letta – l’ex Cavaliere continua a far immaginare un suo ritorno in campo – con dichiarazioni tanto bellicose quanto patetiche – ma nello stesso tempo evita impegni concreti e mantiene ambiguamente aperti alcuni canali di comunicazione con quello che reputa il suo più naturale discepolo (che ha solo il torto di essere sulla sponda sbagliata). E lui permanendo, diventa impossibile la formazione di una nuova forza moderata di governo, con classe dirigente e programmi rinnovati.

C’è infine la terza gamba, quella del Movimento 5 stelle, che proprio mentre è sorretta dalla crescita in tutta Europa di forze gonfiate dal vento dell’anti-politica, che spira più forte che mai, rischia di implodere sotto il peso delle contraddizioni che si porta dietro fin dalla sua nascita e che la vicenda del sindaco pentastellato di un comune del napoletano ha messo così spietatamente a nudo da farle sembrare come irresolubili. Infatti, nel momento in cui Beppe Grillo e gli altri maggiorenti prima hanno difeso il sindaco di Quarto, poi lo hanno mollato nella convinzione che così facendo avrebbero salvato la loro (presunta) verginità di giustizieri della mala politica, il Movimento finisce vittima delle sue stesse parole d’ordine giustizialiste, per cui basta un sospetto (facilmente costruibile a tavolino) per finire alla forca. Gioco che paga quando si è e s’intende restare un movimento di protesta, sostanzialmente anti-sistema, ma che diventa esiziale nel momento in cui ci si mette in gioco come partito di governo (negli enti locali come a livello nazionale). Finora Grillo e Casaleggio avevano esorcizzato il problema con le espulsioni – fino a farlo diventare un fenomeno di massa – e le marginalizzazioni (vedi il sindaco di Parma). Ma quest’ultima vicenda, le urticanti dimissioni del pur folcloristico professor Becchi, che accusa i capi grillini di aver abbandonato il sogno della democrazia diretta optando per la vecchia democrazia eterodiretta, e la frattura che sull’elezione dei giudici costituzionali si è prodotta tra i parlamentari, finalmente convinti di come sia necessaria la negoziazione politica, e la “base del web”, che ha vissuto l’accordo con il Pd come un inciucio, sono altrettanti inequivocabili segnali del fatto che sul processo di trasformazione, o se si di istituzionalizzazione, del M5S gravano punti interrogativi pesanti come macigni.

Dunque, un sistema politico già debole perché tripolare in un paese che non ha nel suo dna la semplificazione politica, e già malato perché soffre del fatto che a nessuna delle patologie manifestatesi con la fine della Prima Repubblica sia stato posto rimedio in quasi un quarto di secolo, ora rischia di entrare in coma perché nessuna delle tre gambe su cui si articola si regge in piedi. Certo, Renzi ha dalla sua il vantaggio, come ha fatto notare Alessandro Campi, di avere molti critici ma nessun vero avversario. Ma questo è al tempo stesso il motivo della sua forza (momentanea) e della sua debolezza (strutturale), perché un leader che è tale per mancanza d’altri è sempre destinato ad essere perdente, prima o poi.

Nessuna speranza, allora? Beh, tre fiammelle, pur flebili, possiamo tenerle accese. La prima riguarda proprio Renzi. L’uomo ha qualità potenziali inespresse che potrebbero trasformarlo da sopportato per mancanza di alternative a indispensabile. Ma deve cambiare registro: studiare da statista, trasformare le ambizioni personali in ambizioni politiche, modificare i suoi atteggiamenti e comportamenti, darsi basi programmatiche più solide e davvero innovative, costruire una squadra di governo e una classe dirigente capace di renderlo direttore d’orchestra e non più solista. Non ha molto tempo, il 2016 sarà un anno maledettamente complicato. La seconda speranza, questa davvero piccola, è che qualche esponente pentastellare emerga dal grigiore, e sappia portare tutti quei voti dall’area del populismo a quella della politica con ambizioni di governo. Si è detto che l’uomo giusto c’è, e si chiama Di Maio. Anche in questa sede ne abbiamo già parlato. La valutazione rimane la stessa: magari fosse. Ma anche qui il tempo stringe, e l’esplodere delle contraddizioni grilline non fa che accorciarlo. Dunque, se davvero Di Maio e chi con lui o per lui ha qualcosa di diverso da dire e da dare al Paese che non sia la minestra riscaldata del rifiuto e del disprezzo della politica senza una visione organica dei problemi interni e internazionali che abbiamo, si faccia avanti. Ora o mai più.

Infine, l’ultima aspettativa è una fiammella ora spenta, e che va riaccesa: la costruzione di un soggetto liberal-riformista, capace di rianimare la fiducia di chi a suo tempo aveva sperato in Monti e nei centristi. E che, naturalmente, non sia l’assemblaggio di pezzi e rimasugli di cose esistenti. Qualche risposta in campo c’è, ma con Passera e Marchini finora è rivolta a Milano e Roma. Mentre è la scena nazionale che reclama una nuova forza. E che sia anche una forza nuova, nel senso di non avere quei tratti leaderistici che sono tipici della Seconda Repubblica. C’è bisogno di un partito vero, che nasca non in casa di un padrone ma da un manipolo di uomini e donne che condividono alcuni valori, hanno in comune il ceppo culturale e definiscono un progetto per il Paese.

Spente queste tre fiammelle di speranza, spenta l’Italia.

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