Così lo Stato va in pezzi
ISTITUZIONI STUPRATE PROCEDURE SVILITE COSÌ LO STATO VA IN PEZZI
10 gennaio 2015
Ci sono due possibili letture di quello che sta accadendo sulla scena politica alla vigilia della formalizzazione delle dimissioni di Napolitano e del conseguente avvio (29 gennaio?) delle procedure per eleggere il successore. La prima è quella classica, politicista, che riconduce tutto alle dinamiche interne al Pd. Sono occhiali che abbiamo inforcato a più riprese anche noi. Ma dopo aver detto che la scelta del nuovo presidente della Repubblica – non solo chi, ma anche e soprattutto come ci si arriva – sarà determinante per il proseguo della legislatura e più in generale per la tenuta del “renzismo”, e aver raccontato che la partita si gioca tutta all’interno dei Democratici, con tutti gli altri a fare inevitabilmente da comprimari, rimane poco da aggiungere – per i nomi è ancora presto, non volendo partecipare al tiro al piccione – e non vale la pena inseguire i dettagli, come purtroppo molti notisti fanno quotidianamente. Per esempio, a che serve alambiccarsi il cervello sulla tenuta del patto del Nazareno alla luce della scabrosa vicenda relativa al decreto legislativo sul diritto penale tributario e al presunto favore che ne sarebbe derivato a Berlusconi? Il “patto” resiste fintanto che i due contraenti ne hanno bisogno – e ne hanno bisogno più che mai – mentre semmai la questione di quel provvedimento allarga la forbice, già bella larga, tra renziani e non dentro il Pd.
No, la vera questione nazionale che emerge dalla vicenda – e siamo alla seconda delle due letture di cui dicevamo – è che qui non sta più reggendo la struttura dello Stato. Non si può svilire procedure istituzionali fondamentali – come quella, sacra, dell’approvazione dei testi di legge, portando in Consiglio dei ministri provvedimenti non del tutto definiti o, peggio, slide di generici documenti assertivi privi di qualsiasi dettaglio – e pensare che tutto ciò non si ritorca contro coloro che perpetrano tali stupri istituzionali. Prima o poi succede. Ed è successo proprio con quel decreto legislativo. Sul quale governo, parlamento e l’intero sistema-paese hanno clamorosamente perso la faccia. Prima di tutto perchè il provvedimento, essendo sostanzialmente giusto, andava difeso politicamente, non mollato al primo stormir di fronde. In secondo luogo perché, come accade spesso a Renzi, le buone intenzioni – in questo caso, emanciparsi dalla demagogia fiscale della sinistra – non sono messe in pratica nel migliore dei modi. Nello specifico, come ha spiegato molto bene il sottosegretario Zanetti, introdurre esenzioni penali (potenzialmente per milioni) sul reato di frode documentale, grave perché presuppone la predisposizione intenzionale di documenti falsi per rappresentare operazioni inesistenti, è cosa sbagliata e indifendibile, mentre è opportuno alzare le soglie di depenalizzazione dei reati tributari meno gravi, come la dichiarazione infedele, e depenalizzare completamente, ferme restando le sanzioni amministrative, le mere omissioni di versamenti dell’Iva in presenza di dichiarazioni fedelmente presentate. Terza questione: non sappiamo se c’entri o meno Berlusconi (a naso, pensiamo di no) nell’aggiunta del famigerato “19 bis”, ma bloccare tutto per quella presunzione – passando dall’ipotesi di provvedimento ad personam alla certezza di “non provvedimento” contra personam – è demenziale. Tanto più se poi si commette l’imperdonabile errore di legare il riesame della normativa alla scelta del prossimo Capo dello Stato, avvalorando l’idea che si trattasse di una furbata. Quarto punto: un governo non può congelare un decreto legislativo già approvato dal Consiglio dei ministri sottraendolo all’esame del Parlamento, mentre Camera e Senato (presidenti, se ci siete battete un colpo) non possono accettare che passi ad altri la prerogativa di fissare il calendario dei propri lavori. È lo stesso errore, rovesciato, commesso per il decreto attuativo delle norme sul lavoro: in quel caso, sorta la questione se i dipendenti pubblici erano o meno equiparati a quelli privati, il Governo ha detto di volersi rimettere al Parlamento, cosa impossibile visto che si trattata di legge delega e dunque, come dice la parola stessa, le camere avevano delegato l’esecutivo a prendere decisioni. Quinto punto: come magistralmente sottolineato da Davide Giacalone, non si può escludere i procedimenti in corso o in giudicato dalla nuova regola (Renzi dixit) senza buttare a mare il “favor rei”, uno dei pilastri della nostra civiltà giuridica.
Ma la cosa più grave di tutta questa brutta vicenda è e resta lo svuotamento di funzioni del Consiglio dei ministri. Non è certo stato Renzi a introdurre la cattiva abitudine di testi di legge completati o modificati ex post. Ma mai in modo così smaccato. Già per la legge di Stabilità erano passati nove giorni tra il testo uscito dal cdm e quello definitivo, ma almeno in quel caso il motivo era più nobile: tener conto delle obiezioni del Quirinale, della Ragioneria e, probabilmente, di Bruxelles. Ora si è passato il segno. Anche perché questa maldestra forzatura si somma con il sempre più esplosivo problema dei contrasti – prima era un braccio di ferro, ora è una vera e propria guerra – tra palazzo Chigi e il ministero dell’Economia. Ma anche con il reiterato abuso dei decreti legge, con l’ambiguità (voluta) dei disegni di legge omnibus e le maglie troppo larghe delle leggi delega, con l’uso smodato del voto di fiducia. Solo che finora la slabbratura delle procedure aveva conferito all’esecutivo un potere sottratto all’effettivo controllo del legislativo, mentre ora aggiungiamo a questa forzatura costituzionale quella ancor più intollerabile della sottrazione del potere dei ministri (singolarmente e collettivamente intesi) a favore del premier e del suo staff. Questa non è premiership – né nella forma del cancellierato né in quella presidenziale – ma confusione istituzionale. Ha ragione Renzi quando sostiene che la politica deve reimpadronirsi delle responsabilità che le spettano, e che per questo occorre rivedere gli assetti istituzionali. Ma non si può fare così. E neppure con riforme a spizzichi e bocconi.
Al contrario, Renzi si faccia promotore della convocazione di una nuova Assemblea Costituente, l’unico luogo veramente deputato ad una complessiva riscrittura delle regole e rivisitazione degli strumenti istituzionali. È l’unico modo. Anche per salvare la faccia e il consenso degli italiani. E il prossimo presidente della Repubblica sia scelto perché portatore di questa istanza. Prima che lo Stato, o meglio quel che ne resta, ci caschi in testa.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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