
Trump e le lezioni della storia
IL SISTEMA POLITICO ITALIANO FINIRÀ SOTTO LE MACERIE DEL TRUMPISMO COME LA PRIMA REPUBBLICA MORÌ DOPO LA CADUTA DEL MURO DI BERLINO
di Enrico Cisnetto - 12 aprile 2025
Confesso che provo imbarazzo a parlare delle miserie della politica italiana mentre il mondo brucia, tra conflitti militari e tragicomiche guerre commerciali, in entrambi i casi due facce della stessa medaglia. Ma il nostro non è proprio l’ultimo dei paesi e, nonostante la tendenza masochista a rendersi marginale, il suo comportamento incide, nel bene e nel male, sull’esito della più complessa e pericolosa partita geopolitica planetaria che si gioca dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Per esempio, il Financial Times ha scritto (prima della retromarcia di Trump, che comunque non ha certo risolto la questione dazi) che il governo di Giorgia Meloni “sarà decisivo” nell’indirizzare o meno la risposta europea ai dazi di Donald Trump – oggi diremmo nel decidere come utilizzare la moratoria reciproca di 90 giorni – in particolare se verso “l’uso dello strumento anti-coercitivo per colpire le esportazioni degli Stati Uniti”, specie nel campo dei servizi e dei flussi finanziari dove lo sbilanciamento degli scambi è a favore degli americani. Prima della retromarcia, si è immediatamente manifestata la volontà di Francia, Germania, Spagna e Belgio di usare il “bazooka commerciale”, a fronte della contrarietà di Romania, Grecia e Ungheria. Così il voto italiano appare decisivo: se fosse contro, il fronte del No diventerebbe una minoranza ponderata di stati membri in grado di bloccare il provvedimento, nel caso opposto invece passerebbe.
Ora il presidente americano, dopo aver mostrato tutta l’irrazionalità e la volgare aggressività di cui è capace, ha un po’ stemperato la tensione, ma vatti a fidare di uno che nel giro di una settimana prima dichiara guerra (commerciale) a quasi tutto il mondo – risparmiando solo la Russia e altre autocrazie – e poi ti fa sapere che ha scherzato e se ne riparla tra tre mesi. E comunque è presto per considerare cessato il pericolo. In primo luogo, perché, come dimostra il nuovo tonfo “post retromarcia” degli indici azionari Usa (tra l’altro dopo la migliore seduta degli ultimi 80 anni), a Wall Street è venuta a mancare la fiducia nella credibilità dell’amministrazione americana – che è materia prima fondamentale – e di certo non la si ricostruisce in 90 giorni. In secondo luogo, il vero motivo per cui Trump ha fatto marcia indietro è perché non solo si è spaventato dei 15 mila miliardi che si sono volatilizzati nelle Borse mondiali in una settimana, ma ancor di più della tensione che si è creata sui Treasury bond, con un’impennata dei tassi che rende ancor più oneroso il già pesante costo del debito Usa e una fuga dai titoli trentennali che segnala una netta caduta di fiducia. Il presidente si è spaventato, e più di qualcuno deve avergli spiegato – con evidente ritardo, perché la cosa era chiara anche prima di tutto questo casino – che il debito americano si regge anche e soprattutto perché ogni anno l’Europa gliene compra per 1.671 miliardi, il Giappone per 1.117, la Cina per 749 e l’UK per 690. Troppo per poter continuare a fare il furbo. Ed è una situazione che potrebbe indurre una di queste quattro potenze a rovesciare il verso della partita in atto: cominciare ad attaccare, anziché limitarsi a difendere. Infine, va considerato che, come ha spiegato con efficacia il professor Carnevale Maffè, “l’attuale regime tariffario americano (quello in vigore fino alla prossima giravolta di Trump) è tuttora fortemente inflazionario e distorsivo, e mantiene i dazi ponderati ai livelli più alti da un secolo, ai quali si aggiunge la ormai conclamata evidenza empirica della totale erraticità delle scelte della Casa Bianca”.
Insomma, guai a credere che la giostra si sia fermata. Un errore che non dovrà assolutamente fare Giorgia Meloni nella tanto agognata e poi temuta visita allo Studio Ovale, il 17 aprile. Ammesso, naturalmente, che con la consueta nonchalance non venga cancellata da un minuto all’altro dal padrone di casa (bianca). Certo, da un lato questo incontro ha perso quel poco di significato che aveva: priva di un mandato formale europeo che non avrebbe mai potuto ottenere, a che titolo la nostra presidente del Consiglio bussa alla porta di Trump? E per ottenere cosa? Anche volendo ignorare la volgarità con cui lo stesso Trump ha bollato queste interlocuzioni (“vengono a baciarmi il culo”) – ma farlo significa inevitabilmente indossare i panni del questuante, e in questi casi una volta piegata la schiena non la raddrizzi più – non c’è alcuna possibilità di scambio praticabile, specie dopo che il presidente ha chiarito che intende negoziare unitariamente con l’Europa e non con i singoli stati. E d’altra parte, negoziare in via bilaterale ci metterebbe fuori dall’Unione Europea, non solo per ragioni politiche ma anche perché sul commercio internazionale Bruxelles ha una competenza esclusiva che non può essere elusa.
Fin qui Meloni si è barcamenata. Prima ha pensato, forzando un po’ troppo il suo ego, di essere in grado di fare la pontiera con gli States. Poi, di fronte alle mattane di Trump, l’ha buttata in pedagogia, spiegando che non bisognava farsi prendere dal panico, come se il problema stesse nelle reazioni anziché nelle azioni che le determinano. Non senza mancare di elencare tutte le colpe di cui è accusabile Bruxelles – talune vere, altre immaginate tali per distorsione ideologica – quasi che le ire di Washington sia l’Europa che se le è andate a cercare. Ora sembra essersi rasserenata, la nostra presidente del Consiglio, dalla moratoria trimestrale, senza però considerare che, come ho cercato di spiegare, i 90 giorni non risolvono alcun problema ma semmai creano indeterminatezza. Sta di fatto che il governo, che ormai da tempo ha adottato la tecnica del guadagnar tempo buttando la palla in tribuna, fa e farà sempre di più fatica a eludere scelte che per le forze che lo compongono sono assolutamente divisive. Insomma, in un quadro geopolitico totalmente stravolto, la scelta di non scegliere non è più, o sempre meno, un’opzione praticabile. Di fronte al protezionismo in campo economico e all’ammiccamento filo-putiniano e all’avversione per l’Europa in politica estera, è impossibile allo stesso tempo praticare il sovranismo e restare acquattati nell’Unione Europea, non puoi entrare obtorto collo nell’alleanza dei volonterosi e poi caratterizzarti solo per i continui distinguo.
E a che razza di dilemma sia di fronte la maggioranza di governo lo racconta il fatto che in vista della seduta parlamentare dedicata alle mozioni sul ReArmEu, il centrodestra ha dovuto escogitare una formulazione che risulti votabile sia dagli europeisti di Forza Italia sia dai putiniani della Lega, grazie a molti silenzi, al mancato uso della parola riarmo e alla assurda indicazione che le garanzie di pace per l’Ucraina debbano essere subordinate all’approvazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè a Putin visto il suo diritto di veto. Ma di escamotage in escamotage, quanto potrà resistere il governo, logorato dalla distanza siderale che separa Lega e Forza Italia e costringe Fratelli d’Italia al silenzio e la Meloni ad un equilibrismo che fa rima con immobilismo? La risposta sarebbe poco, molto poco, se non fosse che, paradossalmente, a fare da puntello sono le opposizioni, a loro volta attraversate da una linea di faglia che le divide in modo del tutto uguale. Ma, anche qui, per quanto tempo potranno essere tenute insieme con il collante del finto unanimismo le diverse componenti del Pd, che mostrano differenze politiche e persino culturali del tutto inconciliabili, come si è visto nel voto all’europarlamento sul riarmo e sul “vado, non vado” del vertice Democrat di fronte alla manifestazione pacifista di Conte-Travaglio and company? E come si costruisce un “campo largo” per battere la Meloni di fronte alla continua consonanza di posizioni tra i 5stelle e la Lega sull’Italia collocata su una posizione neutralista, che suscita persino nostalgia del governo giallo-verde nato a seguito delle maledette elezioni politiche del marzo 2018? Come possono le opposizioni denunciare le contraddizioni che albergano nella maggioranza avendone altrettante, e dello stesso tipo, al proprio interno?
La verità è che un paese in declino come il nostro, angosciato da problemi strutturali irrisolti da tre decenni e ora posto di fronte a questioni planetarie che avrebbero fatto tremare le vene ai polsi ai De Gasperi e ai La Malfa, non può più permettersi di avere un sistema politico che di volta in volta si dota di un governo che sopravvive solo perché, da un lato evita di prendere (vere) decisioni, e dall’altro gode del beneficio di opposizioni che sono lacerate e non hanno uno straccio di leadership. E se questa è la corretta fotografia della situazione, è evidente che la soluzione non sta nell’andare a elezioni anticipate, intenzione che molti attribuiscono alla Meloni nella speranza (illusione?) di fare il pieno di voti in modo da rendersi autonoma da Salvini (e forse anche da Tajani). Perché di fronte al nodo del posizionamento internazionale del paese, al cospetto di decisioni epocali che potremmo essere chiamati a prendere (o respingere) a non reggere più sarebbe l’intero sistema politico.
Dite che sto esagerando? Che il sistema ha una sua resilienza? Può darsi. Ma vi invito a fare con me un esercizio di memoria storica. Ricordate la caduta del Muro di Berlino del novembre 1989 e la successiva disgregazione dell’Unione Sovietica, che segnarono la fine del mondo diviso in due blocchi e archiviarono la contrapposizione ideologica che aveva dominato le relazioni internazionali per quasi mezzo secolo? In Italia, in meno di due anni e mezzo, con il voto del 5-6 aprile 1992, e dopo che nell’ottobre 1990 c’era stata la riunificazione tedesca e nel febbraio 1992 l’avvio dell’integrazione europea con la firma del Trattato di Maastricht, il sistema politico denominato Prima Repubblica ebbe traumaticamente termine. Lo tsunami fu devastante, eppure – in fondo – si trattava di un evento geopolitico, la sconfitta del comunismo, che avveniva nel campo avverso, e che consentiva di celebrare la vittoria del capitalismo, cioè di quel sistema di cui l’Italia faceva parte. Ebbene, in questo momento siamo di fronte ad un cambiamento di portata non inferiore, “ciclone Trump”, e che per di più che avviene nel nostro campo, quello occidentale. Ciò comporta la ridefinizione del nostro posizionamento strategico internazionale alla luce dell’affievolirsi, se non della fine, della solidarietà euro-atlantica, il dover prendere posizione circa il piano Ue di riarmo per difendere l’Ucraina sacrificata dagli Stati Uniti sull’altare del rapporto privilegiato con Putin, la necessità di conquistare un’autonomia militare nell’ambito Nato, in una parola il doversi misurare politicamente con il trumpismo e il putinismo. Tutti fattori inediti di conflitto che, come si è visto, dividono trasversalmente partiti e alleanze, moltiplicando in modo esponenziale le tante lacerazioni già esistenti.
Insomma, è evidente che la storia rischia di ripetersi. E probabilmente in tempi assai più brevi dei 29 mesi che separarono la caduta del muro di Berlino dalla fine della Prima Repubblica. Con la differenza – e io faccio voti perché sia così – che mentre allora prevalse l’anti-politica e si aprì la lunga e terribile stagione del populismo, adesso ci sono le condizioni perché prevalga, grazie all’ancoraggio europeo, il buon governo. Certo, è vero, siamo ancora nel pieno della narrazione secondo cui riformisti e moderati devono restare divisi, accettando il compromesso di convivere ciascuno con le peggiori risme di populisti, sovranisti e massimalisti, in nome della salvaguardia del bipolarismo, per di più inesorabilmente declinato in chiave di radicale contrapposizione. Per autoconvincerci che non si tratta di un sistema ormai fallito, ci siamo industriati a definire stabilità il tirare a campare, e a descrivere come fallimentari i sistemi politici altrui – tedesco, francese, inglese – che pur con alcuni limiti hanno invece dimostrato di saper resistere alla consunzione del tempo e di essere meno cedevoli di altri alle lusinghe dell’anti-politica.
Ora, però, di fronte alle clamorose spaccature che il “trumputinismo” sta producendo all’interno dei due schieramenti e dentro gli stessi partiti che li compongono, a me appare ineluttabile la fine del bipolarismo maggioritario e parapresidenziale. Quello che non so è se il the end sarà morbido o cruento. Marco Follini, che in una War Room si è detto convinto che lo sgretolamento del nostro sistema politico sia già molto avanzato, e che vista la drammaticità della situazione sia “sconsigliabile contare le forze” e viceversa sia “opportuno un grande impegno”. Verso cosa? A mio giudizio, tutto dipenderà dalla capacità che avremo di riscoprirci “neo-proporzionalisti”, rimuovendo l’anomalia solo italiana rappresentata dalle coalizioni pre-elettorali, che invece di costituzionalizzare le estreme hanno reso estremo il sistema, lasciandolo in balia dei peggiori populismi. Se i moderati del centro-destra e i riformisti del Pd umiliati da una segreteria arrivata a dire “né con gli Usa né con l’Europa”, lanceranno la proposta di una nuova legge elettorale di tipo proporzionale selettivo (basta copiare il sistema tedesco), la transizione sarà bonaria. In mancanza, sarà un sanguinoso tutti a casa. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)
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