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L'editoriale di TerzaRepubblica

Italia al bivio

SE IL PATTO USA-RUSSIA SACRIFICA L’UCRAINA SCHIACCIA ANCHE L’EUROPA. L’ITALIA DECIDA DA CHE PARTE STARE

di Enrico Cisnetto - 22 marzo 2025

Se a qualcuno fosse sfuggito, è bene prenderne coscienza al più presto: nella partita che stanno “amabilmente” giocando Donald Trump e Vladimir Putin, un negoziato bilaterale consacrato dalla famosa telefonata di due ore, l’Ucraina è soltanto un di cui. Un dettaglio più marginale e fastidioso che significativo. L’uomo della Casa Bianca deve rendere concreto ciò che ha fanfaronescamente promesso, e cioè dimostrare al mondo che se lui ordina la fine della guerra, così accade davvero. Mentre l’uomo del Cremlino deve poter dire di aver vinto un conflitto che di fatto ha perso, non solo perché non si è concluso in pochi giorni come lui immaginava quando l’ha scatenato, ma perché dopo tre anni si ritrova ad aver conquistato un misero 20% del territorio che una volta invaso voleva annettersi. Ma, appunto, trattasi di dettagli. La vera posta in gioco è la riaffermazione del principio della forza (a scapito del diritto e della diplomazia), grazie alla quale le superpotenze ridefiniscono le proprie aree di influenza, allargandone i confini in base al paradigma dei grandi spazi, e riducendo a due il numero dei player planetari. La logica di Washington è indurre Mosca ad affrancarsi da Pechino, e pazienza se ciò rende ininfluente l’Europa. Mentre quella di Putin è la riabilitazione: riconquistare lo status di grande potenza che gli Usa democratici (in particolare Obama) gli avevano tolto, e con ciò avere forza e titolo per ricostruire l’impero sovietico perduto. Uno scambio – cementato da intese su altri specifici dossier, dall’energia allo sfruttamento delle rotte artiche – al cui perfezionamento i due, Trump e Putin, possono sacrificare molte cose, a cominciare dall’Ucraina e da Zelensky. Peccato, però, che dal destino di Kiev dipenda il livello di sicurezza dell’intera Europa, e dunque che sia assolutamente indispensabile per noi non farci tagliare fuori. Il come questo possa avvenire è normale che sia oggetto di discussione, in sede comunitaria come nei singoli paesi, ma non fino al punto da perdere di vista l’obiettivo fondamentale, che è la nostra protezione e incolumità (fisica, digitale, dei business, ecc.). 

In questo quadro, è lampante che assuma i contorni dell’irrealtà e della penosa banalità la furibonda discussione politica in atto in Italia, che da un lato spacca partiti e coalizioni mandando in frantumi un sistema politico che da anni sopravvive al proprio conclamato fallimento, e dall’altro rende marginale il nostro Paese, riducendolo al ridicolo agli occhi del mondo. Dopo essersi presentati agli appuntamenti europei spaccati sia all’interno della maggioranza di governo che a livello di opposizioni, dopo aver mostrato incertezza, mascherata da supponenza, di fronte alle iniziative dei “volenterosi” orchestrate da Macron e Starmer – siamo ancora in attesa di capire se ne facciamo parte a pieno titolo, a mezzo servizio o per niente – si è persino arrivati ad una sanguinosa contrapposizione tra detrattori e sostenitori del Manifesto di Ventotene, mettendo in scena due fazioni peraltro rigorosamente formate da gente che quel documento non lo hai mai letto e parla per sentito dire. Come se oggi il fondamentale passaggio storico che il Vecchio Continente sta affrontando possa essere schematicamente ricondotto al contesto del 1941 nel quale i confinati dal fascismo Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi scrissero, con il fondamentale apporto intellettuale di Eugenio Colorni, il progetto di un’Europa federale con l’intento di fermare il dilagante nazionalismo nazifascista. E se la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, figura politica moderata (è del Ppe), ha sentito il bisogno di intervenire dicendo che “il Manifesto di Ventotene è un pezzo di storia condivisa, e non può essere usato come strumento di divisione”, ciò significa che a Bruxelles si nutrono dubbi sul ruolo che l’Italia intende assumere. Ed è difficile dargli torto, se noi ci si accapiglia sulla Seconda Guerra Mondiale, mentre il mondo oscilla tra l’orrore di una Terza guerra globale e una brutta Yalta nella quale il nuovo ordine planetario lo decidono altri. 

E questo mentre la Germania è stata capace di convocare in seduta straordinaria il vecchio parlamento (il nuovo uscito dalle urne del 23 febbraio si insedia martedì prossimo, 25 marzo) e approvare, con la maggioranza dei due terzi necessaria per una modifica costituzionale, la deroga al tetto per l’indebitamento per spese militari e di difesa (compresa la protezione civile, i servizi segreti, la sicurezza informatica e gli aiuti agli Stati attaccati in violazione del diritto internazionale, come l’Ucraina). Un voto storico, ratificato anche dal Senato federale, che si è potuto verificare perché alle forze che formeranno il nuovo governo presieduto da Friedrich Merz, Cdu-Csu e Spd, si sono aggiunti i voti dei Verdi, che pure non fanno parte della costituenda maggioranza. Ma soprattutto colpisce che, senza particolari polemiche – figuratevi cosa sarebbe successo in Italia – si sia votato un provvedimento epocale come questo, che cambia i paradigmi tedeschi dell’intero dopoguerra, nel Bundestag ormai all’ultimo atto, per evitare che nella nuova camera i nazionalisti di Afd e la sinistra radicale della Linke esercitassero la minoranza di blocco di cui dispongono non avendo superato lo sbarramento del 5%, sufficiente a rendere impossibile il raggiungimento della maggioranza qualificata.  

Ma stridono con gli ipocriti balbettii italiani anche il decisionismo inglese, con il primo ministro Starmer che ha ormai assunto, in barba alla Brexit, la leadership della rinata – e sia benedetta – alleanza euro-britannica, e quello canadese, con il governo messo nelle mani di un leader di grande spessore ed esperienza come il liberale Mark Carney, l’unico uomo nella storia ad essere stato nominato governatore di due diverse banche centrali (Canada  e Regno Unito, ruolo da cui si è dimesso in aperto dissenso con l’esito del voto sulla Brexit). Starmer, effigiato sulla copertina dell’Economist come nuovo Churchill, sta dimostrando come si possa tener testa a Trump, insieme con elegante fermezza e relativa duttilità (certo favorito dal fatto che il presidente americano non ha verso la Gran Bretagna lo stesso sprezzante atteggiamento che invece mostra nei confronti dell’Unione Europea). Altro che il servilismo provinciale mostrato dai politici nostrani che ambiscono a gettare fantomatici ponti tra le due sponde dell’Atlantico, senza capire che al di qua dell’oceano non si ha la minima intenzione di dare mandati di rappresentanza a chi in Europa fa due parti in commedia, e al di là non c’è alcun interesse per gli europei, figuriamoci per italiani che rappresentano solo se stessi. Quanto a Carney, gli tocca presiedere il G7 in un momento topico per il suo paese, messo brutalmente nel mirino dei dazi trumpiani, e per il club dei grandi della Terra, e lui fin dai primi giorni da premier ha affermato la volontà di voler affrontare le sfide geopolitiche, da quelle di sicurezza a quella dello sviluppo, riprendendo in mano i fili del coordinamento globale senza cedere all’ineluttabilità dei nuovi paradigmi americani. Per questo c’è chi scommette che il G7 canadese saprà sorprenderci, e io spero tanto che costoro vincano la giocata. 

Ma in questo confronto tra il penoso comportamento italico e quello virtuoso di altri, voglio sottoporre alla vostra attenzione una scelta, quella dell’Australia (cui si è accodata anche la Nuova Zelanda), che probabilmente vi sarà sfuggita perché i nostri media non gli hanno dedicato alcun rilievo. Il governo di Camberra, presieduto dal laburista Anthony Albanese, ha infatti deciso di partecipare alla coalizione dei volenterosi assicurando altresì l’invio di forze militari ove necessario. E questo nonostante manchino poche settimane ad un importante appuntamento elettorale interno, quello del voto federale che decide la sorte del governo. Albanese se la deve vedere con il fronte d’opposizione formato dal Partito Liberale e dal Partito Nazionale, che ha chances se non di vincere, almeno di costringere i laburisti a fare un governo di minoranza. Eppure, Albanese non ha avuto esitazioni, dicendo che “l’Australia saprà sempre tener testa ai bulli come Putin”, perché “se un grande paese come la Russia è capace di brutalizzare un piccolo paese sovrano come l’Ucraina, questo ha implicazioni per la pace e la sicurezza nel mondo e noi abbiamo un interesse nazionale nell’essere a fianco di Kiev”. Sentite anche voi lo stridore del contrasto tra queste parole, per di più pronunciate in campagna elettorale, e quelle del balbettio nostrano dove ogni virgola è un distinguo bizantino? 

Mentre l’Europa, scioccata per essere stata messa di fronte a responsabilità che pensava (colpevolmente) di potersi esimere dall’assumere, sta cercando, con affanno e non senza contraddizioni ed errori, di trovare le condizioni e darsi strumenti comuni per affrontare un passaggio storico che sicuramente segna la fine della solidarietà atlantica così come l’abbiamo conosciuta (e goduta) per 80 anni, e forse la fine dell’alleanza euro-atlantica tout court (speriamo di no, ma sia chiaro che dipende da Trump, non da noi), l’Italia dei “ni” fatica a capire la portata delle scelte che ha davanti. Per esempio, il piano ReArmEu proposto da Ursula von der Leyen è lecito discuterlo e criticarlo – io ci vedo i limiti denunciati da Mario Draghi – ma le critiche non possono diventare la foglia di fico dietro la quale nascondere pruderie ideologiche o vigliaccherie politiche, perché quel piano, pur con tutti i suoi difetti, rappresenta lo spartiacque tra l’Europa pietrificata che non ha saputo cogliere neppure due momenti di straordinaria importanza come l’unificazione monetaria e l’abolizione delle frontiere per diventare uno stato federale e l’Europa che tenta di muoversi verso l’ineludibile integrazione per non rimanere stritolata nella morsa che la nuova dimensione della geopolitica ha messo in moto.  

La scelta, dunque non è, come si dice forzando la realtà dei fatti, tra stare con l’Europa o stare con gli Stati Uniti – stante che è stato Trump a dire che non intende più dare piena copertura, anche atomica, a quegli scrocconi degli europei – ma è come stare dentro l’Europa. È lecito desiderare un’Europa confederale semplice strumento di convivenza, e pure limitati, tra Stati che non intendono cedere un grammo della loro sovranità. Ma lo si dica apertamente. Lasciando in pace i martiri di Ventotene, e avendo il coraggio di dirsi sovranisti fino in fondo. Così come è lecito immaginare, come faccio io, un’Europa federale, sul modello degli Stati Uniti d’America, che archivi una volta per tutte i nazionalismi e si attrezzi, per dimensione, peso e risorse, a giocare da player globale la nuova partita geopolitica che le altre potenze stanno imponendo al mondo. Poi, però, partiti e coalizioni si resettino lungo questa linea di demarcazione. E vediamo chi vince. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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