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O l'Europa o Trump
IL TRADIMENTO USA DELL’UCRAINA OBBLIGA MELONI A SCEGLIERE: O L’EUROPA O TRUMP, LA VIA DI MEZZO È SOLO UNA PERICOLOSA ILLUSIONE
di Enrico Cisnetto - 22 febbraio 2025
Non c’è bisogno di scomodare Machiavelli per scoprire che l’ambiguità è parte imprescindibile della politica. A renderla buona (necessaria) o cattiva (dannosa) è il suo dosaggio: una quantità minima rende ingenui, che in politica significa perdenti; una eccessiva rende tracotanti, e quindi prima o poi ugualmente soccombenti; la giusta dose, che si ha in un perfetto mix con il coraggio e la lungimiranza, trasforma un politico in uno statista. L’altro elemento dirimente è l’argomento a cui si applica: più ci si avvicina alla ristretta cerchia dei principi e dei valori fondanti, meno è tollerabile l’ambiguità. Dico questo perché Giorgia Meloni – quindi il governo, quindi l’Italia – è ad un bivio di fronte al quale la doppiezza non è (più) consentita. Finora la presidente del Consiglio ha ritenuto possibile far coesistere una linea europeista, pro Ucraina e contro Putin, con una linea trumpista, di disprezzo verso la Ue e Zelensky e viceversa di amichevole accondiscendenza verso la Russia e i suoi disegni di ricostituzione dell’Unione Sovietica.
La presunzione, che non le fa difetto perché alimentata da indubbie capacità personali e da un alto tasso di furbizia politica, ha indotto Meloni a credere che il lavoro di cucitura abilmente tessuto, direttamente e per mezzo di Elon Musk, con Donald Trump, le potesse consentire di ottenere due vantaggi. L’uno è ricevere un trattamento di favore nel rapporto bilaterale Italia-Usa, l’altro consiste nel poter fare da ponte tra Bruxelles e Washington. Nel primo caso, l’errore sta nel non aver capito lo stile della Casa (Bianca): il rieletto presidente degli Stati Uniti non concepisce lo scambio, conosce e pratica solo l’atto unilaterale, di forza. Gli fa comodo l’atto di sottomissione altrui, ma lo considera dovuto; probabilmente in cuor suo lo disprezza, di certo non lo ripaga. Dunque, è illusorio attendersi un ritorno. Ma è il secondo dei due vantaggi sperati che, rivelandosi una chimera, pone Meloni, e con lei il Paese intero, di fronte al bivio che non ammette ambiguità. E non tanto perché l’Europa – quella formale della Commissione e quella sostanziale delle principali cancellerie – non ha mai dato a Meloni e all’Italia una delega a rappresentarla in un’ipotetica mediazione con la nuova amministrazione americana. Non fosse altro perché in gioco c’è nientemeno che la ridefinizione delle regole d’ingaggio delle relazioni euro-atlantiche dopo 80 anni di piena solidarietà, e non è materia che si possa delegare. No, è la brutalità trumpiana nei confronti dell’Europa e verso l’Ucraina, che si pretende perdente nell’immaginare la fine della guerra cui l’ha costretta la Russia, a non consentire a Meloni di recitare il ruolo in commedia (pardon, dramma) che aveva immaginato per sé.
D’altra parte, ogni spazio di manovra si azzera di fronte alla riscrittura di quanto è accaduto nei tre anni di guerra, con il totale ribaltamento delle responsabilità tra Kiev e Mosca e la conseguente riabilitazione di Putin, così come davanti alla pretesa di una “pace ingiusta” da negoziare senza l’Europa salvo chiederle di farsi carico delle conseguenze delle decisioni altrui. Tanto più se accompagnata da inascoltabili insulti a Zelensky (da parte di Trump e Musk) e all’Europa (vedi l’attacco ad alzo zero del vicepresidente J.D. Vance), ripresi e amplificati dal Cremlino fino al punto di minacciare il presidente Mattarella di ritorsioni. Non c’è margine quando gli Stati Uniti decidono di non sottoscrivere una risoluzione dell’Onu che condanna l’aggressione russa all’Ucraina (una volta tanto che le Nazioni Unite ne fanno una giusta) e un analogo documento del G7 in cui si riconosce l’integrità dell’Ucraina. O quando si raccontano balle clamorose (i 350 miliardi di dollari spesi dagli Usa per Kiev, con l’unico scopo di minimizzare il contributo europeo), quando si sceglie Riad invece che Ginevra come sede dei negoziati (casualmente l’Arabia Saudita non aderisce a quella Corte penale internazionale che ha emesso un mandato di cattura nei confronti di Putin), quando insomma si è al cospetto di un piano che persino il Wall Street Journal, giornale moderato e soprattutto di proprietà di Rupert Murdoch che certo non è un antipatizzante di The Donald, sintetizza con “Trump vuole svendere l’Ucraina a vantaggio della Russia”.
Naturalmente, la tracotanza di Trump non esclude che con lui si debba parlare. Anzi, ne aumenta la necessità. Ma un conto è confrontarsi come si accingono a fare Emmanuel Macron e Keir Starmer, forti di posizioni chiare e nette che hanno preventivamente assunto, e altro è farlo quando si è immersi nell’ambiguità. Il presidente francese arriva alla Casa Bianca dopo aver speso parole inequivoche (“l’unico dittatore in questa guerra è Putin, Zelensky è un eroe”) e forte sia del fatto che la Francia è l’unico paese continentale a disporre di deterrenza nucleare, sia di aver meritoriamente tentato di avviare una risposta europea, ancorché smozzicata, con il vertice di Parigi (si veda la War Room di martedì 18 febbraio, qui il link). Mentre il primo ministro inglese sarà a Washington dopo aver messo sul piatto la proposta di creare una forza militare dotata di 30 mila uomini e di una strumentazione aerea di sorveglianza, mossa che in qualche modo legittima Europa e Regno Unito a sedersi a tavolo delle trattative di pace dal quale “quei due”, Trump e Putin, la vogliono fuori.
La presidente del Consiglio italiana, invece, ha preferito l’arma del silenzio. Che è utile quando si coniuga alla prudenza, ma è sconsigliabile se nasconde ambiguità e imbarazzo. Come si può tacere dopo aver sempre tenuto una posizione, in linea con l’amministrazione Biden prima ancora che con la Ue e in continuità con il governo Draghi, che è l’opposto della narrazione e delle pretese trumpiane? Non si può far finta di niente quando il presidente di un paese amico, vittima di un’aggressione che ha portato devastazione e morte, cui fino a ieri si è manifestata solidarietà e offerto sostegno in nome della difesa dei valori della libertà, della democrazia e dell’autodeterminazione, viene vilmente insultato non dal nemico conclamato ma dall’alleato che abbandonandolo al suo destino tradisce non solo lui, ma il valore supremo della solidarietà atlantica posta a fondamento dell’Occidente così come finora lo abbiamo conosciuto e amato. Né ci si può nascondere dietro il malcelato compiacimento (della serie, l’avevamo detto) nel vedere l’Unione europea chiudere mestamente un ciclo storico senza mostrare, almeno per ora, il nerbo e la lucidità necessari ad aprirne uno nuovo (bastino le parole sferzanti di Mario Draghi all’Europarlamento: “fate qualcosa”), quando una leadership che pretende di definirsi “la più solida del Vecchio Continente” proprio a immaginare e organizzare la risposta europea dovrebbe adoperarsi.
Tantomeno il silenzio omertoso si giustifica con la circospezione richiesta dai precari equilibri interni alla maggioranza di governo. Perché un conto sono i contrasti sulle politiche nazionali, fisiologiche in una coalizione composita, e un altro sono le divergenze, specie se radicali, sulla politica estera e il posizionamento del paese nel contesto internazionale. Su questo la distanza tra la linea della Lega, coincidente per molti versi a quella di “Giuseppi” Conte, e quella di Forza Italia (corroborata dalla portentosa intervista di Marina Berlusconi dei giorni scorsi) si è fatta patologicamente siderale. E continuare a far finta di niente contando che il carisma dell’inquilina di palazzo Chigi sia sufficiente a coprire le lacerazioni, da un lato è illusorio – prima o poi lo strappo insanabile arriva – e dall’altro è deleterio, per la credibilità del governo e del Paese. Ci aspettano decisioni epocali – si pensi per esempio all’aumento delle spese militari, che per noi significa un raddoppio o giù di lì, e all’auspicabile creazione di un sistema unico di difesa europea – che richiedono di rivolgersi agli italiani con un coraggioso linguaggio di verità, e francamente un chiarimento vero sembra indifferibile. Meglio se chiamato dalla presidente del Consiglio, ma in mancanza, Tajani non può sottrarsi a richiederlo se vuole provare a continuare a gestire l’eredità berlusconiana e tentare di avere un minimo di agibilità nello svolgere la sua funzione di ministro degli Esteri. Per tutto il centro-destra vale il monito di Stefano Folli: “nessun equilibrio politico, per quanto conservatore, è al riparo dallo scossone Trump”. Ignorarlo e farsi del male è un tutt’uno.
Certo, non aiutano le ipocrisie, i tentennamenti e le contraddizioni delle opposizioni. Stridono le divergenze dentro il Pd, che Elly Schlein tenta di sopire ma che sono verosimilmente destinate ad esplodere quanto più i 5stelle – ai quali la linea prima filo putiniana e ora filo trumpiana, ma con apertura alla Cina, imposta da Conte non crea alcun mal di pancia – suoneranno la grancassa pacifista contro quelli che chiamano i “bellicisti” occidentali, che è musica alle orecchie dell’ala massimalista e populista piddina e rumore inascoltabile per i riformisti. La segretaria, imitando Meloni, cerca rifugio nel silenzio, defilandosi, ma così non fa che accentuare la percezione di impraticabilità di quel “campo largo” che rappresenta l’unico straccio di proposta politica che Schlein ha saputo esprimere finora. Quale sarà il terreno comune del fronte che deve battere la Meloni? L’evocazione del pericolo fascista? Voglio vederlo, se in quel fronte alligna chi tace o addirittura si compiace della torsione autoritaria impressa da Trump alla democrazia americana. Oppure il centro-sinistra diventa la “coalizione pacifista”, che si definisce per essere contro l’aumento delle spese militari per la sicurezza europea e l’invio di truppe per gestire la fine della guerra russo-ucraina?
Ma se le faglie di rottura nelle opposizioni avranno conseguenze future, quelle nella maggioranza sono destinate a produrle nel breve, salvo non si voglia spegnere il fuoco con un melmoso liquido di galleggiamento, cosa che potrebbe anche assicurare la sopravvivenza in base al motto andreottiano “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, ma sarebbe però destinata a mettere una pietra tombale sui propositi decisionisti di una leader convinta di “fare la storia”. Ambizione, questa di scrivere una pagina memorabile, che sarebbe alla sua portata se solo Meloni si decidesse a cogliere la grande occasione che la rivoluzione epocale in atto nel mondo le offre. Che è quella di contribuire a far nascere gli Stati Uniti d’Europa, l’unica risposta ai disegni imperiali di Trump, Putin e Xi Jinping che consenta al Vecchio Continente di preservare la sua autonomia, la sua ricchezza diffusa e il suo sistema di protezione sociale, ma soprattutto la forma migliore di libertà e democrazia che il globo conosca. Sia chiaro, però, che a fare comunella con i sovranisti che all’Europa non credono, anche se mascherano la loro contrarietà sotto il falso slogan “non ci piace così com’è, ne vogliamo un’altra”, a preferire Orbán, Abascal e Le Pen a Macron, Starmer e (dopo le elezioni tedesche) Merz, a sventolare la bandiera dei fanatici del Make America Great Again, s’imbocca tutt’altro percorso. Una strada che (forse) conduce a Mar-a-Lago, ma che di certo non porta l’Italia nel posto che le compete.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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