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L'editoriale di TerzaRepubblica

Sinistra: Londra insegna, Parigi no

LA SINISTRA SE VUOLE GOVERNARE GUARDI AL LABOUR INGLESE E NON AL FRONTISMO FRANCESE. E APRA AL CENTRO RIFORMISTA

di Enrico Cisnetto - 06 luglio 2024

Londra val bene una messa, Parigi no. Per le sinistre europee andrebbe riformulato così l’antico detto di Enrico di Navarra che gli fece da viatico per diventare Enrico IV re di Francia, perché è dal rinato Labour inglese e non dal raccogliticcio Nouveau Front Populaire francese che si può e si deve trarre ispirazione. Keir Starmer, come da pronostico stravincitore delle elezioni che in Gran Bretagna hanno messo fine ad una tanto lunga quanto poco gloriosa stagione Tory, è il nuovo Tony Blair. O forse anche meglio, perché dell’uomo della “terza via” gli manca l’afflato del leader che fa sognare, ma in più ha la concretezza del pragmatismo minimalista. Ha fatto fuori in modo risoluto ma senza clamori il giacobino Jeremy Corbyn dalla guida del partito laburista, e con lui ha allontanato gli elementi che dal 7 ottobre scorso hanno rispolverato le frusta giaculatorie antisemite facendo il tifo per Hamas contro Israele, ha rianimato il verbo e la postura riformista (“molti pensano che la passione consista nell’urlare e insultare, per me invece si tratta di aggiustare le cose, rendendole migliori” è la frase con cui rappresenta se stesso), è arrivato persino ad elogiare Margaret Thatcher come “fulgido esempio di servizio pubblico”. Insomma, Starmer ha reso nuovamente il Labour Party un’opzione elettorale per il ceto medio inglese, e quindi per tutto il Paese, e con questa virata politica – insieme con il vantaggio che gli hanno regalato i Conservatori, passati da un disastro all’altro fino al suicidio politico – ha sbaragliato il campo conquistando il numero 10 di Downing Street. Dimostrando che la sinistra, almeno a quella latitudine, batte la destra e va al governo se ha i tratti del riformismo moderato e guarda al centro, non se veste i panni del radicalismo e pretende di non lasciar fuori nessuno alla sua sinistra, populisti dichiarati compresi.

Peccato che la sinistra italiana, e segnatamente il Pd di Elly Schlein, non parli inglese, ma francese. Sarà perché nel riformismo del New Labour non c’è traccia della cultura woke del progressismo nostrano, sarà forse perché scatta lo stupido riflesso condizionato di considerare il blairismo progenitore del renzismo con tutto quel che ne consegue, sta di fatto che fino a risultati inglesi acquisiti né la segretaria né gli esponenti di punta Dem hanno speso una parola di apprezzamento che una per Starmer, e anche dopo hanno lasciato alla sola pattuglia riformista il compito di ragionare sui motivi della straordinaria vittoria laburista (per esempio, Lia Quartapelle, Filippo Sensi e altri hanno scritto un instant book dal titolo “La Quarta via. Il Changed Labour”).

Viceversa, il vertice del Pd si è entusiasmato per Jean-Luc Mélenchon, il Corbyn transalpino, e già pensa di poter proiettare sugli schermi della politica italiana il film neo-frontista andato in onda a Parigi. Peraltro, senza rendersi conto che in Italia c’è una legge elettorale ben diversa dal doppio turno francese, che rende decisivo il ballottaggio perché sono pochi i seggi assegnati al primo turno in quanto è richiesto di superare il 25% e, si badi bene, non dei votanti ma degli aventi diritto (su questo ci torneremo, visto che in Italia si vorrebbe andare nella direzione opposta). E senza quel sistema, anche volendo, il fronte repubblicano per fermare le destre è un’opzione politica impraticabile.

Sapremo soltanto al termine del secondo turno dedicato ai ballottaggi, se il neo Fronte popolare rabberciato in fretta e furia mettendo l’estrema sinistra antiamericana e antisemita, e di fatto filo-putiniana, insieme con quella riformista europeista e atlantista, avrà avuto ragione della destra euroscettica, trumpiana, antisemita e fortemente supportata da Mosca del duo Marine Le Pen-Jordan Bardella, impedendole di arrivare al governo. Ma comunque vada – e sono fiducioso, come lo sono stato fin dal primo momento, che il presidente Macron alla fine vinca la scommessa che ha lanciato sciogliendo le camere dopo il voto europeo e indicendo le elezioni anticipate – non ho dubbi che quella del “campo largo in salsa francese” sia un’esperienza politica, per quanto inevitabile perché resa necessaria dall’aleggiare dello spettro dell’estrema destra, destinata a durare ancor meno del poco (due anni scarsi) che in Italia durò l’Unione di Romano Prodi dopo aver vinto le elezioni del 2006. Lo conferma Pierferdinando Casini, uno che di queste cose se ne intende: “La desistenza in Francia è obbligatoria, ma non prenderei il Fronte a modello per l’Italia, perché significherebbe consegnare il Paese alla Meloni per altri dieci anni”. E spiega che “senza l’inclusione di un’area moderata il centrosinistra non vince”.

Ma c’è la reale disponibilità del Pd ad allargare il campo largo verso il centro? E, ammesso che così sia, c’è l’area moderata disposta a farsi costola della sinistra? Elly Schlein ha detto che è finita l’era dei veti, quelli da dare e quelli da ricevere. Sembrerebbe un passo avanti, ma è troppo poco se poi il modello a cui si guarda è il fronte popolare alla francese. La chiave della costruzione di un centro-sinistra che non sia un sinistra-centro, infatti, non può essere la chiamata alla resistenza antifascista. Anche qui viene in soccorso Casini, che pure lì ha piantato le tende: “è un errore pensare che con la discriminante ideologica si vincano le elezioni, l’antifascismo è condizione necessaria ma non sufficiente. Le pregiudiziali ideologiche sono cadute, e i ceti popolari che votano per i sovranisti perché si sentono abbandonati non li riconquisti con l’antifascismo”. D’altra parte, la storia della cosiddetta Seconda Repubblica ci dice che creare un’alleanza (stavo per scrivere ammucchiata) esclusivamente in chiave “anti” – ieri anti-Berlusconi, oggi anti-Meloni – genera solo due risultati, entrambi negativi: o perdi, specie se alle elezioni arrivi essendo stato al governo, o vinci ma subito dopo ti sfasci, perché quel collante contro qualcosa o qualcuno funziona in campagna elettorale ma non regge quando si tratta di governare. Se a questo si aggiunge la naturale inclinazione della sinistra italiana ad assumere sempre e comunque una postura oppositiva in base ad una logica emergenziale per cui prevale il pericolo che genera allarme e confeziona il nemico da fronteggiare, e allora si capisce perché il Pd, pur cambiando i leader, non è in grado di darsi una linea politico-programmatica in positivo che costringa le altre forze a misurarsi su quella e non su un comun denominatore “anti”, ben più facile da condividere ma sul quale non si costruisce una forza di governo. E si capisce perché tra il riformista Starmer e il massimalista Mélenchon (l’erede dei comunisti che nel 1936 contro Leon Blum facevano uguale sfoggio di antisemitismo e antisocialismo, l’ha definito Bernard-Henri Levy), dalle parti del Nazareno non abbiano dubbi a preferire il secondo. Con l’aggravante che, nel caso, il federatore del fronte popolare all’italiana non sarebbe più un Romano Prodi, ma l’avvocato Giuseppe Conte. 

Tutto questo farebbe pensare che comunque l’apporto del “centro che guarda a sinistra”, indispensabile per immaginare di prevalere in sede elettorale, non dovrebbe essere disponibile. E invece ecco che i due egoriferiti del fu Terzo Polo, Calenda e Renzi, lanciano messaggi ammiccanti quando non addirittura fanno esplicite aperture, salvo fare rapida marcia indietro. Parte per primo l’ondivago Calenda, che già dal Pd è entrato e uscito alla velocità della luce, a dire un “beh, visto come stanno le cose, parliamone”. Ma dopo essersi sentito fregato dal ben più scafato Renzi, che lo scavalca elogiando, udite udite, la compagna Elly con un inedito “Schlein segue un percorso intelligente”, ecco che Calenda affida ai social la retromarcia: “un’accozzaglia populista e largamente filoputiniana con una spruzzata di centrino opportunista non serve a nulla. Buona strada”. Tutto nel giro di un paio di giorni.

Situazione ridicola, se non fosse che c’è una spiegazione: l’intenzione di entrambi era quella di stoppare la comune ambizione che hanno mostrato Enrico Costa in Azione e Luigi Marattin in Italia Viva di costruire “un unico grande partito liberal-democratico e riformatore” che avendo individuato nel “bipolarismo all’italiana” il vero cancro del nostro sistema politico sia determinato a star fuori sia dal perimetro di sinistra che di destra. E qui veniamo alla discussione, questa sì seria, che si è aperta nel mondo liberaldemocratico, tra chi ritiene che stante questa legge elettorale e pur sapendo bene quanto sia difettoso il nostro bipolarismo, a qualunque centro che non voglia limitarsi a fare testimonianza è fatto obbligo di scegliere da che parte stare, e in questo caso lo spazio non può che essere a sinistra per aiutare a creare un’alleanza che possa definirsi di centro-sinistra, e chi invece ritiene che il ripetuto fallimento di dar vita al Terzo Polo sia da ascrivere a Calenda e Renzi e non alla mancanza di spazio politico per un centro autonomo dai due poli proprio perché ferocemente critico del bipolarismo italico, per cui ci si debba riprovare con altri uomini e con altri mezzi.

Nella War Room del 19 giugno dedicata proprio a questo dibattito (qui il link) il direttore de Linkiesta, Christian Rocca, ha descritto lo stato d’animo di chi, come lui, si è battuto perché alle elezioni europee questo benedetto Terzo Polo fosse unito, e dopo aver preso atto dell’occasione persa, pensa che la battaglia si debba spostare dentro e a lato del Pd, per spingerlo su posizione riformiste. È l’idea che, per esempio, ha anche Giorgio La Malfa indicando come terreno per far nascere questa convergenza l’opposizione alle riforme del destra-centro, il premierato e l’autonomia regionale, con o senza referendum. Ed è l’idea, stranamente avanzata da Goffredo Bettini, di chi lavora alla rinascita della Margherita (forse più di fantasia che nella pratica, visto anche il gentile ma deciso rifiuto di Francesco Rutelli e farsi coinvolgere). Mentre Marattin ha invece spiegato le ragioni opposte, partendo dal presupposto che la cultura riformista del Pd si è ormai atrofizzata e che lo stare insieme solo per battere la destra, così come a destra lo stare insieme solo per battere la sinistra, è la ragione del fallimento del nostro sistema politico e conseguentemente del declino strutturale del Paese.

Ora, in politica 2+2 non fa mai 4, e non sappiamo cosa sarebbe successo alle europee se la lista di chi non vuole stare né a destra né a sinistra fosse stata una sola. È assai probabile che un drappello di europarlamentari li avrebbero avuti, andando a rafforzare il fronte liberale che ha patito la sconfitta di Macron in Francia. Ma se anche ciò fosse avvenuto, sarebbe stato sufficiente per sgominare il bipolarismo forzato che ammorba l’Italia da tre decenni? Ne dubito, perché ci vuole ben altro di Calenda e Renzi per costruire nella politica italiana quel “centro di gravità permanente”, per dirla alla Battiato, di cui così tanto si sente l’esigenza. Per esempio, c’è bisogno che la componente riformista del Pd si manifesti come tale in modo strutturato – senza badare all’inevitabile accusa di voler fondare una corrente – e si confronti con chi sull’altro fronte ha posizioni moderate, e viceversa c’è bisogno che Forza Italia faccia altrettanto, trovando punti di convergenza che possano frenare la polarizzazione in atto. Difficile, lo so, ma perché quotidianamente ingoiare i rospi da un lato di Schlein, Fratoianni-Bonelli e Conte, e dall’altro di Meloni e Salvini, senza reagire e marcare le differenze?

Tornando al polo anti-bipolarista, quello di cui sono fermamente convinto è che gli elettori potenziali non manchino. Anzi, che ci sia una prateria tutta da conquistare. Almeno tre milioni di voti chi pratica il centro li ha già presi. E poi c’è l’immensa prateria degli astenuti, e in particolare di quella vasta fetta che resta a casa non per qualunquismo o menefreghismo, ma perché non trova sulla scheda l’offerta giusta che la convinca ad andare ai seggi. E qual è l’offerta che li può convincere a tornare a votare? L’ho già detto e lo ribadisco: quella di un partito vero, non personale e perciò con una leadership contendibile, che abbia un’identità chiara e solide radici culturali, capace di fare analisi originali sullo stato del Paese, parlando un linguaggio di verità non mediato dall’idea che per prendere voti bisogna edulcorare le cose, portatore di un bagaglio politico programmatico all’altezza delle sfide immani cui la contemporaneità ci pone di fronte. Un soggetto politico autonomo, che dialoghi con entrambi gli schieramenti ma ne rimanga fuori, e faccia accordi solo occasionalmente e solo quando ce ne siano le ragioni politiche e di merito.

Marattin e Costa sono in grado farlo? Glielo e me lo auguro, anche se avrei preferito che avessero lasciato al loro destino i due partiti di provenienza per far nascere un soggetto politico totalmente nuovo, tramite l’adesione di più personalità, anche e soprattutto al di fuori della politica attiva, ad un manifesto politico-culturale e programmatico che ne illustri le ragioni fondanti. Ma in tutti i casi, non mancheremo di sostenerli e spronarli.

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