I pericoli per Europa e Italia post voto
IN EUROPA C’È CONTINUITÀ NELLA DISCONTINUITÀ. IN ITALIA, SI VINCE PERDENDO POLITICA AL MINIMO STORICO
di Enrico Cisnetto - 15 giugno 2024
Premessa. Prima di analizzare il risultato delle elezioni europee, vanno anteposte due questioni metodologiche. La prima: in termini politici, occorre considerare il numero assoluto dei consensi, non le percentuali rispetto ai voti espressi, anche se nulla toglie alla legittimità della rappresentanza che da esse deriva. La seconda: un conto sono le sensazioni e un’altra è la realtà dei fenomeni elettorali e delle loro conseguenze; sono entrambe degne di uguale attenzione, ma non vanno confuse.
Detto questo, occhio perché nulla è come sembra. Considero anch’io, come per molti, deludenti e per certi versi preoccupanti queste elezioni. Ma per motivi del tutto diversi da quelli che sono stati fin qui evocati. La delusione nasce dal fatto che non si è compreso, più o meno in egual misura a ogni latitudine del Continente, l’importanza di questa consultazione elettorale rispetto alla dimensione dei problemi che abbiamo davanti e all’epocalità del contesto storico. L’Europa è in una fase di pre-guerra e rischia di interrompere dopo 80 anni il formidabile ciclo di “pace, sviluppo, progresso e benessere” iniziato nel 1945 con la fine del secondo conflitto mondiale. Cosa ci può essere di più forte e coinvolgente per fare una campagna elettorale incentrata su questi temi (e invece si è parlato di tutt’altro), per essere indotti ad andare a votare (e invece la media europea è stata del 51%, con oltre la metà dei paesi con più cittadini rimasti a casa di quelli andati ai seggi, fino al massimo di astensione del 77% in Croazia) e per votare i partiti sinceramente europeisti (in maggioranza è stato così, ma il risultato dei sovranisti francesi, tedeschi e in parte italiani allarma). Insomma, se queste elezioni dovevano rappresentare una risposta ferma e decisa ai disegni imperialisti di Putin, così non è stato.
E qui sta la mia preoccupazione. Perché se è vero che quella della “marea nera che sommerge l’Europa” è solo una (brutta) sensazione solo molto parzialmente suffragata dai numeri, e che in fondo dalle urne è emersa una “continuità nella discontinuità”, con la vecchia maggioranza europeista composta da Popolari, Socialisti e Liberali un po’ indebolita (il PPE guadagna 8 seggi, ma Renew ne perde 23 e il S&D 5) ma sufficientemente solida, visto che con 400 seggi complessivi conserva un margine di 39 voti parlamentari sui 361 necessari per avere il controllo dell’europarlamento, tuttavia nulla toglie alla gravità della sconfitta patita da Macron e Scholz e all’indebolimento europeo che genera, considerato che Francia e Germania sono stati fin qui il cuore e il motore del Vecchio Continente.
Ma alle categorie della delusione e preoccupazione non sfugge neppure l’Italia, anzi. Intanto per il livello raggiunto dall’astensionismo. Da noi ha votato solo il 49,69% degli aventi diritto, percentuale che scende a poco più del 48% se si considerano gli elettori italiani all’estero e al 42% nei luoghi dove non c’erano anche elezioni amministrative (lì il traino ha portato il voto al 62%). Nella prima elezione a suffragio universale dell’europarlamento, nel 1979, andò a votare oltre l’85% degli italiani. Poi via via il numero è sceso: nel 1994 al 74,6%, nel 2009 al 66,4% fino al 56% la scorsa volta nel 2019. Una curva discendente che riflette anche l’andamento elettorale nazionale, fino alle ultime elezioni politiche del 25 settembre 2022 quando a votare andò il 63,9%, o il 60% se si considera anche il voto estero. Ma mai nella storia repubblicana l’astensione aveva superato la metà degli aventi diritto. Sintomo indubitabile che la nostra democrazia non stia per niente bene e che l’importanza cruciale dell’Europa, specie in un momento come questo, non sia stata compresa.
Dunque, i risultati del voto di sabato e domenica scorsa non possono che essere esaminati alla luce di questo dato. E quindi guardando il numero assoluto dei voti, e non le percentuali. Così facendo si scopre che rispetto a due anni fa Fratelli d’Italia ha perso 577 mila suffragi (6 milioni 724 mila contro 7 milioni e 301 mila voti), la Lega 371 mila (e qui bisogna anche considerare che Vannacci ha portato oltre 550 mila voti personali) e Forza Italia ne ha persi 290 mila. Ergo le forze di governo hanno avuto complessivamente 1 milione e 238 mila voti in meno. Aggiungete gli oltre 2 milioni di voti persi dai 5stelle e il milione e 316 mila persi complessivamente dal trio Calenda, Renzi, Bonino, senza i quali nessuno di loro ha potuto superare lo sbarramento del 4%, e avrete il quadro di una vera e propria fuga degli italiani dalla politica. Gli unici ad incrementare il bottino, sempre rispetto alle politiche, sono stati l’Alleanza verdi-sinistra, oltre mezzo milione di voti in più, e il Pd, che però partiva dal livello più basso della sua storia e ha aggiunto solo 287 mila voti.
Insomma, ciascuno è libero di dire di aver vinto, guardando alle sole percentuali, e il governo può rivendicare la propria stabilità, ma deve essere chiaro che si è vinto perdendo voti e che chi vince resta decisamente minoritario nel Paese. E tutto questo perché siamo dentro una crisi del sistema politico che viene da lontano, e che più la si ignora, accontentandosi di vincere perdendo, e più si aggrava. Crisi che certo non si risolverà con la presunta “rinascita del bipolarismo” (che poi, quello vero non è mai nato e quello malato inventato da Berlusconi nel 1994 non è mai morto). D’altra parte, per capire di che pasta sia fatto il bipolarismo al femminile, il Giorgia-Elly di cui tanto si sproloquia, basta osservare (con raccapriccio) le scene parlamentari di questi giorni (gli stessi in cui si ricorda, poco e male, Giacomo Matteotti).
In queste ore post-elettorali si sono dette anche altre tre cose: che il governo si è rafforzato; che il campo largo del centro-sinistra può finalmente nascere perché ora sarà la Schlein a realizzarlo; che per colpa di Calenda e Renzi il cosiddetto Terzo Polo (ma andrebbe scritto con due elle) è definitivamente morto e sepolto. Spiace deludere i tanti (anche gente stimabile, mannaggia) che si sono spesi per queste tre circostanze, ma le cose non stanno proprio così. Il governo è appeso, né più né meno di prima, alle convulsioni interne che lo attraversano, e che dipendono sì dai capricci di Salvini, ma soprattutto dalle contraddizioni politiche che dividono chi lo compone su questioni fondamentali, a cominciare dalla politica estera e in particolare la collocazione in Europa e il rapporto con la Russia di Putin. Non v’è chi non veda che le scelte da fare per dare un assetto alle istituzioni comunitarie, gli sviluppi della guerra in Ucraina, il posizionamento da prendere nei confronti di Israele, le conseguenze dell’eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca e la manovra di bilancio da fare con margini strettissimi e sotto procedura d’infrazione Ue per deficit e debito eccessivi, rappresentano altrettanti passaggi cruciali, e a dir poco difficili, cui il governo Meloni dovrà far fronte, e possibile fonte di incrinature interne. Se Meloni sceglierà di fare fronte comune con la Le Pen, Forza Italia potrà far finta di niente? E, viceversa, se voterà la riconferma della von der Leyen (o altro candidato indicato del Ppe), che farà Salvini?
Anche sul fronte del centro-sinistra, le contraddizioni di ieri sono rimaste quelle di oggi. Il Pd conta su 5,6 milioni di italiani contro i 5,3 delle politiche – ergo le cromie di Elly valgono 300 mila voti scarsi, la metà di quelli di Vannacci tanto per dirne una, e comunque la differenza l’hanno fatta i cosiddetti “cacicchi”, a cominciare da Decaro, l’ex sindaco di Bari – e non ha fatto un passo avanti nella definizione di una seria agenda di governo. Per fortuna in Europa sono andati prevalentemente esponenti riformisti, ma la segreteria Schlein, che era barcollante, si è ovviamente consolidata, e considerata la performance del duo Bonelli-Fratoianni – unici veri vincitori delle elezioni – ora guarderà ancor più di ieri a sinistra per costruire quella che è già chiamata “l’alternativa antifascista”. Che alternativa non è perché come ha notato Marco Follini, “senza un’area moderata non c’è una colazione in grado di vincere”. Dovremmo consolarci con la sonora sconfitta di Conte, grazie alla quale l’avvocato del popolo non potrà più esercitare la primazia nel “campo largo” che con gran tromboneria aveva rivendicato? Francamente l’unico motivo per rallegrarci sarebbe la definitiva sconfitta del grillismo, oltre che la scelta del Pd di smettere di considerare i 5stelle un soggetto di sinistra (in realtà rappresentano solo un populismo politicamente asessuato) e dunque un interlocutore con cui allearsi.
D’altra parte, se il centro-destra si è trasformato in destra-centro, così il centro-sinistra non può che essere sinistra-centro, o addirittura sinistra-sinistra. È la polarizzazione forzata, che fa perno sulle ali anziché sul centro. Oltretutto, a sinistra manca la gamba centrista, che dall’altra parte è rappresentata da Forza Italia e suoi aggregati. Può darsi la faccia Calenda (auguri), o può essere che rinasca la Margherita (magari). Ma intanto stiamo a zero. Così come lo siamo, a zero, nella rappresentazione dell’area centrista, intesa come chi ha un progetto alternativo ad entrambi i poli e vuole la fine del bipolarismo estremizzato. Lo spazio politico c’è e quello elettorale pure (recuperando i tanti moderati sfiduciati e stanchi di non avere un’offerta politica adeguata), anzi è una prateria sconfinata, ma né Azione né Italia Viva sono più praticabili. Deve per forza nascere un soggetto politico nuovo, non più espressione di un singolo promotore, ma un partito vero con una leadership contendibile nato dall’adesione di più personalità ad un manifesto politico-culturale e programmatico. Qualche segnale c’è, per esempio ne è arrivato uno dall’ottimo Luigi Marattin, ma ne parleremo più avanti, quando la cosa si farà più matura.
Stabilità o meno del governo, evoluzione (o involuzione) a sinistra, nascita di un partito nuovo, non ancillare ai due poli: tutto questo molto dipenderà da come si evolveranno le cose a Bruxelles, che a loro volta saranno la diretta conseguenza di ciò che accadrà a Parigi e Berlino. Macron e Scholz hanno avuto due reazioni opposte alle rispettive débâcle, figlie di temperamenti agli antipodi. L’inquilino dell’Eliseo, preso atto di aver ottenuto meno della metà dei consensi del Rassemblement National di Marine Le Pen e del giovanissimo Bardella (15% contro 31,4%), si è prodotto nella “mossa del cavallo”: ha sciolto l’Assemblea Nazionale e ha indetto elezioni anticipate a stretto giro, il 30 giugno il primo turno, il 7 luglio il secondo. Qualcuno ha parlato di mossa suicida, e può darsi che alla fine le destre porteranno a casa la maggioranza dei 577 seggi parlamentari e Macron sarà costretto alla cosiddetta cohabitation. Ma attenzione, la legge elettorale prevede che al primo giro passino solo i candidati che nei 577 collegi uninominali in cui è divisa la Francia abbiano ottenuto la maggioranza assoluta, mentre in caso contrario, accedono al ballottaggio coloro che hanno ottenuto almeno il 12,5%. Questo meccanismo fa sì che il partito che ha ottenuto più voti al primo turno non necessariamente abbia un peso corrispettivo nella futura Assemblea. Per esempio, nel 2022 la Le Pen ottenne il 18,6% dei voti al primo turno, senza a riuscire ad eleggere alcun deputato. E al secondo si possono fare alleanze “anti”. È così che finora il fronte repubblicano ha sempre tenuto lontano dal potere l’ultra-destra. Certo, ora i gollisti (quel che ne resta) si sono spaccati, ma la partita è comunque aperta. E io confido che Macron sappia offrire una sponda all’emergente Raphaël Glucksmann (con il suo movimento “Place Publique” e il Partito socialista è arrivato al 14%, poco sotto Renew), specie ora che ha rifiutato di irregimentarsi con la gauche d’antan di Jean-Luc Mélenchon.
Sull’altra sponda del Reno, Scholz ha invece scelto la via, solo apparentemente più prudente, di far finta di nulla. Certo, ha ammesso la sconfitta – ma non poteva fare diversamente, visto che i tre partiti che sostengono il governo hanno ottenuto complessivamente quanto la Cdu all’opposizione (31%) e l’Spd è stata scavalcata dai neonazisti e filo-putiniani dell’Afd, che sfiorano il 16% diventando il secondo partito (con un radicamento fortissimo, non a caso nella vecchia Germania Est) – ma ha rimandato tutto a fine legislatura, tra poco più di un anno. Così, però, è costretto a guardare in modo passivo i cristiano democratici aprire ad accordi per le amministrative d’autunno con Afd in Sassonia e Turingia, dove i neo-nazi hanno il 30%. Per ora il leader della Cdu, Merz, prova a frenare, ma certo l’immobilismo di Scholz sta spingendo la parte più conservatrice dei popolari verso l’estrema destra. L’opposto di quello che sta accadendo in Francia.
Ora restano da vedere tre cose. La prima: se il Ppe confermerà o meno l’indicazione di Ursula von der Leyen come candidata alla presidenza della Commissione Ue. È molto probabile, ma i nemici (interni al Ppe) non mancano. La seconda: per la sua riconferma, come anche per un eventuale candidato diverso, ci si baserà solo sull’attuale maggioranza o, nel timore di franchi tiratori, si vorrà aprire ad altre alleanze? E in questo caso, i Verdi, che pur avendo perso 19 seggi conservano un pacchetto di 53 voti, oppure a una parte delle destre, come per esempio i 26 parlamentari di Fratelli d’Italia e chi degli altri 47 che si iscriveranno al gruppo capeggiato dalla Meloni (in totale Ecr ha 73 seggi) vorrà eventualmente seguirli? Terza questione: che maggioranza si formerà nel Consiglio Europeo, che riflette la condizione politica degli Stati nazionali? Meloni preferirà un accordo con la Le Pen e Orban per mettersi alla testa di un grande rassemblement della destra europea, con ciò isolando l’Italia in Europa in modo devastante, o sceglierà di votare la sua amica Ursula (o chi per essa) anche solo con un appoggio esterno? Da questo non facile incrocio di interessi da comporre e volontà da conciliare, così come dal risultato del voto francese (e, potrà sembrare strano, anche da quello inglese, il 4 luglio) dipenderà il futuro dell’Europa e quindi il nostro. Mentre noi ci trastulleremo con premierato e autonomia regionale, nell’illusione di esorcizzare i motivi che tengono la maggioranza degli italiani lontani dalle cabine elettorali.
ps. per saperne di più consiglio di vedere o rivedere le tre puntate di War Room di questa settimana. Quella sul voto di martedì 11 giugno con Andrea Bonanni, Adriana Cerretelli e Antonio Villafranca (qui il link), quella sulle conseguenze sulla politica italiana di mercoledì 12 giugno con Davide Giacalone, Paolo Macry e Claudio Tito (qui il link), e quella su Francia e Germania di giovedì 13 giugno con Paolo Garimberti, Mara Gergolet e Cesare Martinetti (qui il link).
L'EDITORIALE
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