ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Meloni double face

TROPPO MODERATA PER I SODALI TROPPO RADICALE PER I MODERATI MELONI DOUBLE FACE RISCHIA IN ITALIA E IN EUROPA

di Enrico Cisnetto - 25 maggio 2024

Chi voteranno gli italiani che l’8 e 9 giugno scriveranno Giorgia sulla scheda? La Meloni euro-atlantica, dalla rassicurante postura istituzionale, politicamente moderata, amicona della von der Leyen e preoccupata di tenere sotto controllo i conti pubblici come Bruxelles chiede? Oppure la Meloni della prima ora, sovranista e critica della Commissione Ue fino al punto da chiedere che il potere torni nelle mani degli stati nazionali, come è apparsa nel suo sanguigno intervento all’adunata delle destre europee organizzata dagli spagnoli di Vox – un ritorno sul luogo del delitto, visto il suo famoso comizio “Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy cristiana” dell’ottobre 2021 che tanto scalpore aveva suscitato – accomunata all’ungherese Orban ma anche alla francese Marine Le Pen? Il quesito non è di facile soluzione, eppure dalla risposta dipende in misura significativa il pronostico di cosa accadrà in Europa e in Italia nei prossimi mesi. Perché se è vero che molti di coloro che daranno fiducia alla leader di Fratelli d’Italia, magari riconfermando quella già espressale alle politiche nel settembre 2022, non si porranno neppure la domanda, non meno vero è che una parte non residuale se la porrà eccome. Tra costoro, probabilmente il gruppo più folto sarà formato da chi ha apprezzato la Meloni moderata e ora teme che riemerga la versione di antico conio; ma ci sarà anche chi farà la valutazione opposta.

La considerazione più facile da fare è che siamo in campagna elettorale, e dunque è normale che i decibel salgano e le semplificazioni prevalgano. Ma è una spiegazione troppo banale per meritare la nostra attenzione. La verità, invece, è che esiste veramente una Meloni double face, e non solo e non tanto per ragioni strumentali. In questi 19 mesi di governo, ho più volte detto che tutto ciò che di positivo si poteva attribuire alla presidente del Consiglio, tanto o poco che fosse, derivava da un’opera di “ravvedimento virtuoso” delle sue tradizionali posizioni, e che tutto ciò che positivo non era derivava dal voler tenere fede agli antichi intenti, o da ravvedimenti parziali e poco convincenti. Poteva, e può, sembrare paradossale, ma tanto più Meloni tradiva se stessa, tanto maggiore era l’apprezzamento che suscitava, in Italia ma soprattutto nei più diversi contesti internazionali. Il problema è che questo meccanismo di trasformazione è andato producendosi a scatti, con fughe in avanti ma anche con altrettanti rinculi. Uno stop and go che si è accentuato negli ultimi tempi, un po’ per l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale europeo – che fa scattare quel maledetto (e a ben guardare autolesionistico) riflesso condizionato secondo il quale nelle urne si fa il pieno quanto più si indossano i panni del populismo radicale e si alzano i toni – e un po’ per l’accentuarsi dell’asfissiante concorrenza a suon di distinguo di Salvini all’interno del centro-destra.

Insomma, c’è una Meloni consapevole che per governare il Paese l’approdo euro-atlantico è fondamentale e che per realizzarlo occorre politicamente evolvere in senso liberal-conservatore, e ce n’è un’altra che subisce il richiamo delle origini, è ossessionata dall’idea di non avere nessuno alla sua destra (ecco perché Salvini la manda in bestia) ed è convinta che il “doppio registro” le consenta di fare il pieno di consensi tanto a destra quanto al centro. Il politologo Giovanni Orsina, nella bella War Room di giovedì 23 maggio (con lui Marc Lazar e Claudio Tito, qui il link ), ha spiegato che questa “ambiguità” Meloni la giustifica con il suo doppio ruolo, di presidente del Consiglio e di leader di partito, e che la contraddizione è solo apparente perché Meloni può sostenere che il suo nazionalismo politico è quello che le serve per pesare sui tavoli europei quando vi siede nel suo ruolo istituzionale. Ma Orsina – che peraltro è persuaso che quella vera sia la Giorgia ideologica e barricadera e non la Meloni moderata e istituzionale – ha anche aggiunto che l’ambiguità rischia di farla “cadere tra due sedie”, cioè finire per scontentare entrambe le aspettative, sulla base del principio che in politica l’ambiguità è un’arma a doppio taglio. Io sono d’accordo con Orsina, e anzi aggiungo che, paradossalmente, tanto più interpreta bene i due ruoli, tanto maggiore è il rischio che a lungo andare susciti delusione su entrambi i fronti. 

Di tutto questo ne è un esempio calzante la vicenda dei rapporti tra Meloni e Le Pen. Come ha ben ricordato Stefano Folli, la leader del Rassemblement National rappresenta quella destra reazionaria francese che è figlia dei nostalgici di Vichy, come lo era suo padre Jean-Marie, e non certo quella conservatrice che discende dal generale De Gaulle. Motivo che spiega i reiterati fallimenti di padre e figlia nel tentativo di conquistare l’Eliseo. Ultimamente la Le Pen ha iniziato un lavoro di maquillage politico-culturale, abbandonando le posizioni più estreme, cercando di relegare al passato il suo strettissimo rapporto con Putin, fino alla cacciata, pur frettolosa e poco convincente, dei tedeschi di Afd – per capirci quelli che solo pochi giorni fa hanno avuto parole di comprensione per i nazisti delle SS e che sono rimasti i soli a predicare l’uscita dall’Unione europea – dal raggruppamento europeo dei sovranisti dichiarati di “Identità e Democrazia”. Così Le Pen – che negli ultimi tempi si era lasciata avvicinare dal Salvini in progressione destrorsa, irritando non poco Meloni – ha improvvisamente aperto alla presidente italiana, che l’ha ricambiata di altrettante attenzioni non fosse altro per attenuare quella percezione di eccesso di simpatia nei confronti di Ursula von der Leyen che le è stato rimproverato.

Questo asse Marine-Giorgia, però, provoca diverse conseguenze. La prima: è inevitabile che si vada a riesumare i vecchi intrecci tra il mondo missino e il fronte lepenista, e questo non fa bene a nessuna delle due. La seconda: appare bizzarro che l’incontro tra le due avvenga mentre la francese si sta sforzando di marciare verso il centro e l’italiana rincula verso destra. Difficile trovarsi, soprattutto stabilmente. La terza: il vantaggio politico della seppur posticcia alleanza Meloni-Le Pen è tutto francese, in chiave anti Macron sia in vista delle europee sia in prospettiva per le presidenziali transalpine del 2027. Viceversa, il danno per Meloni è che tanto più si rende praticabile un’intesa o addirittura una vera e propria aggregazione tra i Conservatori che lei stessa guida e il gruppo di Identità e Democrazia, tanto meno diventa possibile il già improbabile ingresso della presidente del Consiglio al gran galà delle nomine che farà seguito al voto del 9 giugno. Dopo le elezioni si dovrà decidere con quale alleanza politica dare un assetto alle diverse istituzioni comunitarie, e a oggi non ci sono le condizioni perché Popolari e Liberali, che peraltro hanno la chance di aggregare i Verdi, possano accettare di sostituire i socialisti con i Conservatori o anche solo parte di essi, tantomeno coinvolgendo anche i sovranisti di Identità e Democrazia, seppur liberati dall’ingombrante presenza dei nazi di Afd. 

Salvo sorprese, dalle urne uscirà la conferma del Ppe come partito di maggioranza relativa, e tutte le componenti dei Popolari, anche quelle più a destra, hanno detto chiaro e tondo che potranno sedersi al tavolo delle intese, sia all’Europarlamento che al Consiglio europeo, solo gli europeisti e gli atlantisti doc, conclamati avversari della Russia e alleati dell’Ucraina. Ora, queste caratteristiche la Meloni capo del governo di Roma le possiede, ma la Meloni leader di Fratelli d’Italia no, o comunque non pienamente. E più frequenta gli appuntamenti di Vox, flirta con Orban e cede alle lusinghe di Le Pen, e tanto più Giorgia fagociterà Meloni. Certo, complessivamente le forze nazional-populiste porteranno a casa buoni risultati, e di conseguenza può diventare praticabile il disegno di ridefinire il perimetro della destra in tutto il Continente, creando un fronte antagonista e alternativo alla sinistra. Ma dove porterebbe imboccare una tale strada? Da nessuna parte, visto che il perno della politica europea rimarrà saldamente ancorato al centro, e che l’asse tra Popolari e Socialisti è già ben sperimentato. Ed è inutile illudersi che a Bruxelles e Strasburgo per Meloni si possa ripetere la “confortevole” situazione di Roma, dove il confronto-scontro con Elly Schlein, tutto basato sulla contrapposizione ideologica destra-sinistra e persino fascismo-antifascismo, finisce per fare il gioco di entrambe, a patto di fregarsene altamente di quanta ulteriore astensione questo folle bipolarismo produce.

Detto questo, si potrebbe tranquillamente liquidare con un lapidario “fatti suoi” se a Giorgia l’abbraccio con Marine costerà caro e se l’essere double face la farà cadere tra due sedie, se non fosse che di mezzo ci va l’Italia. Perché in autunno il governo dovrà fare i conti, nel senso più stretto della parola, con la nuova Commissione Ue avendo sul groppone una procedura d’infrazione per deficit e debito eccessivi, confortata dalla valutazione del Fondo Monetario che “suggerisce” una manovra correttiva da 60 miliardi nei prossimi due anni. Inoltre, saremo chiamati, sia in sede Ue che Nato, a fare la nostra parte se, come purtroppo è probabile, lo scenario di guerra a Est dovesse aggravarsi e ampliarsi. Saremo cioè chiamati a fronteggiare emergenze che per essere affrontate richiedono armonie interne e sintonie internazionali. Mentre oggi delle prime non disponiamo, e non solo e tanto per la contrapposizione destra-sinistra, fuori dal tempo e dalla realtà, quanto perché è quotidiana, e su temi significativi quando non fondamentali, la divaricazione interna alla maggioranza di governo. Fibrillazione che, ragionevolmente, è destinata ad aumentare con l’esito elettorale e con l’accrescere delle difficoltà circa le decisioni che saranno da prendere. Inoltre, sulla testa del Paese pende la riforma del premierato – quello che Folli con una battuta ben riuscita ha definito “figlio mal riuscito del presidenzialismo” – destinata, specie quando diventerà oggetto di consultazione referendaria, a diventare un elemento di spaccatura che finirà per gettare ulteriore benzina sul fuoco. Meloni sostiene di non voler imitare Renzi – e c’è da crederle, visto che per Matteo versione Marchese del Grillo, quel passaggio fu letale – ma la personalizzazione della riforma presentata come epocale spartiacque tra un prima e un dopo, certo non aiuta non dico a creare un clima “costituente”, ma neppure a rendere possibile un confronto civile e costruttivo. Infine, delle “sintonie internazionali” ho detto. La sensazione è che Giorgia-Penelope stia disfacendo quanto fatto nella prima parte del suo mandato. E che la situazione possa aggravarsi con l’eventuale ritorno di Trump alla Casa Bianca, non fosse altro perché in quel caso assisteremo – sono pronto a scommetterci – ad un revival del connubio tra “Giuseppi” Conte e Salvini, pronti a far vedere i “sorci gialloverdi” a Giorgia.

Spero ardentemente di sbagliarmi, of course.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.