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  • 20200118 - Manifattura in crisi, serve un piano industriale

Fermare il delcino

Puntare sulla manifattura

Stiamo perdendo la spina dorsale economica del Paese

di Enrico Cisnetto - 19 gennaio 2020

Ci siamo dimenticati la manifattura, che è il motore di tutta l’economia. Tanto è vero che abbiamo chiuso l’anno una contrazione per il quindicesimo mese di fila. A dicembre l’indice IHS Markit è sceso a 46,2 (da 47,6 di novembre), restando ben al di sotto della soglia di 50 che separa crescita e contrazione. È il punto peggiore degli ultimi sette anni. D’altra parte, anche l’Istat ha bollato il 2019 come l’anno nero dell’industria italiana, con una perdita dell’1,1%. A novembre la produzione è tornata positiva, ma solo dello 0,1% su ottobre, mentre la Germania segna +1%. Allargando l’inquadratura, poi, c’è da deprimersi: rispetto a novembre 2018 si perde lo 0,6%, per il nono ribasso consecutivo, mentre dal massimo ante-2008 abbiamo ceduto il 20,8%.

Insomma, stiamo perdendo la spinta della dorsale economica del Paese, che da cinque anni a questa parte aveva sempre chiuso in crescita. E, complice la congiuntura internazionale negativa – tanto più problematica quanto più sono interconnesse le filiere produttive, e noi siamo fornitori di beni intermedi – le previsioni non possono che essere negative. Per questo è tanto più grave la scarsa attenzione rivolta alla locomotiva della nostra economia. Perché senza invertire il trend della manifattura rischiamo di veder sfumare sia le (poche) cose positive fatte finora, come la spinta di Industria 4.0, ma soprattutto di penalizzare quella parte di aziende che compete e cresce sui mercati internazionali.

Se reggono chimica ed elettronica, registrano segno meno il tessile, il petrolifero, l’elettrico, quello dei macchinari industriali e la componentistica per l’automotive, che soffre i problemi dell’industria tedesca. Oltre a Ilva e Alitalia, per i quali bisogna tornare molto indietro nel tempo per riscoprire qualche momento di gloria, attualmente ci sono 150 tavoli di crisi aperti, con centinaia di migliaia di posti di lavoro a rischio. Vertenze non risolte, a cui bisogna aggiungere i danni provocati da misure quali sugar tax e plastic tax. Non solo per l’impatto economico, ma anche perché aggiungono altra burocrazia.

Difficile, infatti, che un imprenditore decida oggi di investire in Italia di fronte ad uno scenario in cui, oltre ai soliti problemi se ne sommano altri, figli di una maledetta concezione anti-industriale. Questo spiega perché sia in forte calo la domanda di credito e conseguentemente le erogazioni di prestiti, nonostante i tassi d’interesse al minimo storico (1,27%), e perchè le imprese i soldi li chiedano non per fare investimenti – che infatti sono crollati – ma solo per ristrutturare il debito e per far funzionare il capitale circolante. Tanto che le società capaci di autofinanziamento, anzichè investire, alzano il livello dei depositi in conto corrente (secondo dati Bce negli ultimi otto anni è raddoppiato).

In un contesto del genere, è necessario mettere in campo politiche per lo sviluppo industriale, sapendo che ci sono questioni fondamentali come quella dei nuovi modelli industriali legati alla tecnologia, filiere sempre più verticali, la transizione verso l’auto-elettrica, la transizione verso l’economia circolare. (twitter @ecisnetto)

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.