Ridurre i Comuni
Ancora troppi debiti, inevitabile fondere quelli piccoli
di Enrico Cisnetto - 12 maggio 2019
Oltre alla mancata abolizione delle province, la legge Delrio ha fallito anche nel tentativo di riduzione del numero dei Comuni. Non solo per la mancata riforma costituzionale collegata, ma soprattutto per una norma costruita male che ha lasciato come “volontaria” la scelta sulla fusione per chi sta sotto i 5.000 abitanti. E come tale mai adottata da enti che hanno dimostrato di non volere e non essere capaci di autoriformarsi. Per cui l’unica soluzione, se si vuole riordinare la struttura pletorica del nostro decentramento, è imporre un obbligo coercitivo, considerato che oltre a 20 Regioni, 80 province più le due autonome di Trento e Bolzano e le diversamente autonome della Sicilia, 14 Città metropolitane, quasi 500 enti intermedi, ad affollare il sistema amministrativo sono soprattutto i 7.982 Comuni parcellizzati sul territorio.
Pur rappresentando la storia d’Italia, l’esercito dei Comuni non funziona. Lo dimostrano i dati pubblicati da Bankitalia e Viminale, secondo cui a fine 2018 il loro debito complessivo era di 37,7 miliardi. In diminuzione dai 39,5 miliardi del 2017 e i 47,8 del 2010, ma solo per effetto del blocco degli investimenti pubblici che proprio dai Comuni passa in via prioritaria. Tant’è vero che è aumentato il numero di quelli in pre-dissesto (50 all’anno) e dissesto finanziario (30 all’anno), per un totale dell’1% in default ogni 12 mesi. A conti fatti sono oggi 500 i Comuni con spesa fuori controllo (il 6,25%), con punte del 33% in Sicilia e Calabria e del 20% in Campania. Senza dimenticare che secondo l’Istat la spesa corrente complessiva per la loro stessa esistenza (organi istituzionali e segreteria generale) è di 2,1 miliardi l’anno – stessa cifra di quella per ordine pubblico e sicurezza – esattamente quanto costano le loro funzioni.
Oltretutto, più i Comuni sono piccoli e meno funzionano. Dei 556 dissesti finanziari censiti dal 1989 al 2017 (di cui 450 nel Meridione), il 40% ha riguardato quelli al di sotto dei 2.000 abitanti, un altro 20% quelli da 2mila a 5mila e il restante 40% in quelli fino a 60mila, che comunque sono città di medie dimensioni.
Insomma, una frammentazione che è sinonimo automatico di inefficienza, perché le mini-amministrazioni incontrano più difficoltà nell’adeguarsi alle norme, organizzare gli uffici, ottimizzare le risorse e specializzare il personale. E quando sono vicini, invece di fare “rete”, si fanno concorrenza. Per esempio, nessuno cede i propri surplus a chi è in difficoltà. Senza dimenticare l’incapacità di riscuotere le tasse, tanto che tra Imu e Tari sono 5 i miliardi che ogni anno i Comuni non riescono a incassare. E quindi poi chiedono soccorso allo Stato.
Piero Fassino, da sindaco di Torino e da presidente Anci, chiese di azzerare i Comuni sotto i 15 mila abitanti arrivando così a 2.500. Sarebbe eccezionale, ma potrebbe già essere positivo rendere effettiva l’unione di quelli sotto i 5.000, visto che rappresentano circa il 70% del totale, ma solo il 17% della popolazione. Allora, in un arco di tempo ragionevole, l’unica autonomia che lo Stato centrale dovrebbe permettere ai Comuni è la scelta del “partner” con cui unirsi, ovviamente nel rispetto della contiguità territoriale. E chi resta sotto le soglie, subisce la cancellazione e amen. Perché quando il carattere “volontario” non funziona, quello “obbligatorio” è d’obbligo. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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