Caos inglese
Dal lungo stallo sulla Brexit l'Italia ha molto da perdere
di Enrico Cisnetto - 31 marzo 2019
Il Parlamento britannico ha bocciato per la terza volta l’accordo siglato da Theresa May con l’Unione europea per una Brexit ordinata, precipitando il Regno Unito nell’anarchia. Ma il modo per rimettere insieme i cocci c’è: indire un secondo referendum, come ha suggerito il sindaco di Londra Sadiq Khan. Giustificato non solo dal fatto che nel 2016 la maggioranza per il leave fu risicata (51,9% contro 48,1%) o perché una democrazia ha sempre diritto di cambiare idea, ma soprattutto perché quasi sei milioni di britannici hanno firmato per la revoca della Brexit, scendendo poi in piazza come mai era successo nel Regno Unito.
Nello stesso tempo, però, vanno indette elezioni politiche anticipate, in modo da chiudere il rosario di sconfitte che il governo May ha inanellato, la cui gravità la leader dei conservatori inglesi non intende prendere atto, risparmiando a se stessa dimissioni che sarebbero di certo più dignitose.
La Ue e le più influenti cancellerie europee dovrebbero fare tutto il possibile per agevolare questa scelta. Prima di tutto nella speranza che la nuova consultazione ribalti il risultato della prima, non fosse altro perché l’isola rappresenta il 12% degli abitanti e il 15% della potenza economica dell’Unione. E in particolare dovrebbe impegnarsi in questo senso l’Italia, visto un’uscita degli inglesi dal mercato comune potrebbe equivalere a dazi fino al 5% per i 23,4 miliardi di merci che esportiamo Oltremanica e a un conseguente rallentamento del flusso di nostro export. Ma, paradossalmente, se anche il risultato referendario e la composizione del nuovo parlamento fossero ancora nel segno del “leave”, questo doppio passaggio elettorale metterebbe comunque i paladini della Brexit in condizione di negoziare con Bruxelles l’uscita, togliendo loro e noi da questa insopportabile condizione di stallo.
D’altra parte, l’alternativa sarebbe o una “hard Brexit” il 12 aprile, oppure un rinvio a lungo termine con la probabile partecipazione di Londra alle elezioni europee del 26 maggio. Il tutto mentre il Regno Unito nel frattempo verrebbe rappresentato da un governo esautorato, con alla testa un premier “zombie”, che resterebbe in carica pur sfiduciato, affiancato da un ministro per la Brexit che ha invitato i deputati a sostenere l’accordo ma poi ha votato contro.
Per questo sembra evidente che di fronte a tale caos, e con sullo sfondo una crisi economica che potrebbe esplodere da un momento all’altro, l’unica soluzione ragionevole sarebbe quella di ritornare ad appellarsi agli elettori. Partendo dal presupposto che se quello tra Londra e l’Europa non è mai stato un matrimonio d’amore, le prosaiche ragioni di interesse sono tuttora vive e vegete. Non è un caso, per esempio, che Francia e Gran Bretagna abbiano chiuso anche dopo il 2016 accordi in materia militare, immigrazione e sostegno ai paesi in via di sviluppo. E c’è poi l’entità del fio che Londra dovrebbe pagare per l’uscita (fino a 50 miliardi di euro) o che versa annualmente all’Unione (12-13 miliardi l’anno), così come lo status dei milioni di cittadini comunitari che vivono nell’isola, i dazi e le tasse su prodotti materiali e immateriali e il ruolo della City, che da piazza finanziaria integrata potrebbe divenire una sorta di “grande Cipro”. Insomma, il remain converrebbe anche a Londra. Il discorso non è chiuso. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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