Reddito e tasse
Il taglio del cuneo fiscale meglio del salario minimo
di Enrico Cisnetto - 10 marzo 2019
Sono partite le prime domande per il reddito di cittadinanza, mentre il decreto è ancora in discussione in parlamento, e tra le pieghe delle modifiche ha fatto capolino l’introduzione di un limite salariale, pari a 858 euro, al di sotto del quale si può rifiutare l’offerta di lavoro come “non congrua”. Vedremo quale sarà la versione finale conversione, ma va registrato che proprio sul salario minimo garantito sono già in corso prove di dialogo tra 5stelle e Pd (di Zingaretti).
Ora, non c’è dubbio che in Italia gli stipendi siano troppo bassi, ma affrontare il problema pensando di alzare i minimi significa prenderlo dal lato sbagliato. Quello giusto, invece, sarebbe un taglio, incisivo e permanente, del cuneo fiscale. Introdurre un compenso minimo vincolate erga omnes non significa solo limitare la libera contrattazione, sia individuale che collettiva, per sostituirla con un’imposizione di legge, ma anche ignorare che quello che finisce in tasca al lavoratore è meno della metà di quello che spende l’azienda. Secondo il rapporto “Taxing wages” dell’Ocse, che mette a confronto il peso fiscale sulle buste paga, l’Italia è al quinto posto tra i 34 Paesi più sviluppati per maggiori oneri a carico di imprese e lavoratori, pari al 47,7%. Ergo, per ogni 100 euro di retribuzione il lavoratore ne versa 45 allo Stato e l’azienda 46. Se poi si prende in considerazione la classifica dei contributi versati dalle imprese ogni cento euro di stipendio, tra i nostri competitor c’è la Francia prima con 52 euro, poi noi con 46 euro, mentre la Spagna è a 38 e la Germania a 32. Oltretutto, bisogna evidenziare che mentre Berlino e Parigi hanno tagliato il cuneo fiscale (rispettivamente dello 0,9% e dell’1,7%) non lo abbiamo aumentato dell’1,1%.
Insomma, tra contributi previdenziali e fisco, il costo del lavoro in Italia è già troppo elevato – con il duplice effetto che i lavoratori hanno troppo poco e le imprese perdono competitività – per aumentarlo ancora. E con gli altri costi – fiscali, amministrativi, burocratici, energetici – già elevati, più quelli impropri (giustizia civile, infrastrutture, ecc.), le imprese non possono certo farsi carico di un ulteriore handicap nei concorrenziali mercati globali. Tra l’altro, proprio la produttività dei fattori, a cominciare da quella del lavoro, è un nodo mai sciolto del nostro sistema produttivo. Sul tema, infatti, l’Italia è “maglia nera” tra i paesi industrializzati almeno dal 2001 e non è un caso che da decennil declino italiano corra parallelo al crollo della produttività del lavoro, che ha una media annua inferiore di un quinto a quella Ue (+0,3% a fronte di +1,6%).
Già in passato il sostegno drogato alla domanda (vedi gli 80 euro di Renzi) non ha fatto ripartire i consumi. E quand’anche, è facile che vadano a beneficio di prodotti esteri, dall’Iphone a Netflix, dalle auto tedesche a un volo Ryanair. Tant’è vero che in questi anni le importazioni sono cresciute quattro volte il pil. Dunque, la giusta ricetta è, da un lato, per chi lavora tagliare il cuneo fiscale, detassare i premi di produttività e favorire la contrattazione decentrata; dall’altro, per i tre milioni di persone che non studiano e che il lavoro né lo hanno né lo cercano, investire in innovazione tecnologica e formazione continua per immetterli nel mercato. Il resto sono scorie ideologiche e populismo d’accatto. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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