La Germania programma, l'Italia no
Così i tedeschi rilanciano: priorità alla manifattura
di Enrico Cisnetto - 17 febbraio 2019
Anche i brutti periodi possono essere utili, se ci si dedica a coltivare quelli positivi. La Germania, in questo, è specializzata. L’ha fatto ai tempi del governo Schröder (1998-2002) con l’obiettivo di delocalizzare ad est le produzioni più povere, e lo sta facendo in questa fase in cui l’economia tedesca ristagna per disegnare la strategia industriale dei prossimi dieci anni. L’Italia, che pure vive un rallentamento assai più marcato di quello tedesco e dunque ne avrebbe un disperato bisogno, non riesce invece a guardare oltre il proprio naso.
Berlino ha da poco ufficialmente presentato il piano “Strategia industriale nazionale 2030” con lo scopo di mettere la manifattura al centro del sistema economico e rafforzare le industrie internazionali. Si può sottolinearne il merito, poiché il piano considera i mercati globali come imprescindibili, o discuterne il metodo, visto che viene creato un fondo pubblico con il compito di entrare “temporaneamente” nel capitale di aziende strategiche, ponendo seri dubbi circa il rispetto del divieto europeo sugli aiuti di Stato. Ma non c’è dubbio che l’ambizione del governo tedesco sia giusta: rafforzare quei campioni nazionali, avanguardie tecnologiche, che generano un indotto rilevante per le imprese a conduzione familiare del Mittelstand, il ceto medio, che altrimenti rischiano di rimanere indietro. E con loro rafforza a monte il sistema bancario, che ha zoppicato e zoppica come e più del nostro. Insomma, il governo Merkel punta su “più Stato” e su “più Europa”, poiché il mercato di riferimento è oggi sovranazionale.
Strategia neo-keynesiana? Se ne può discutere, ma una cosa è certa: almeno è una strategia. Per non passare “da attore a paziente passivo, da laboratorio di sviluppo a banco da lavoro”. Quantomeno, dovrebbe essere un modello per l’Italia, in cui uno straccio di strategia industriale manca da decenni. Eppure, neanche le cose già pronte da fare si avviano. Da alcune grandi opere, Tav in testa, che restano bloccate per prevenzioni ideologiche, alla moltitudine delle più piccole. Pensiamo ai collegamenti tra porti e ferrovie, per merci e passeggeri. Oppure ai treni regionali e al trasporto pubblico locale, che generano 12 miliardi l’anno di ricavi trasportando 5,4 miliardi di persone. Come suggerisce l’associazione delle imprese del settore (Asstra) guidata da Andrea Gibelli, una strategia che promuovesse un aumento dimensionale delle imprese consentirebbe di migliorare l’efficienza e frenare il calo degli investimenti (dal 5,5% al 4,9% del valore della produzione negli ultimi due anni). Sembrerà strano, ma i soldi non mancano, visto che nell’ultima manovra sono stati stanziati 15 miliardi di investimenti e 6 ne avanzano da quella passata. Eppure, l’anno scorso era previsto un aumento delle uscite di 850 milioni, mentre c’è stata una diminuzione di 750. Senza parlare dei 60 miliardi del Fondo Investimenti di palazzo Chigi (da cui sono usciti solo 300 milioni) o i 150 miliardi per programmi infrastrutturali previsti nelle ultime manovre (di cui è stato speso solo il 4%). Non spendere quei soldi è autolesionistico, non meno che aver finora usato solo il 15% dei 73,67 miliardi messici a disposizione dai Fondi Strutturali europei entro il 2020.
Non potremmo chiedere ai tedeschi di insegnarci come si fa? (twitter @ecisnetto)
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