Se lo spread rimane stabile
Non è una buona notizia se lo spread non si muove
di Enrico Cisnetto - 20 gennaio 2019
Meglio, ma solo leggermente. Lo spread ha chiuso la settimana a 247 punti, mentre nelle ultime due settimane aveva oscillato tra 260 e 274. Lo scarto con il massimo di 326 punti raggiunto il 20 novembre è dunque diventato di un’ottantina di punti, ma purtroppo non c’è da tirare nessun sospiro di sollievo. Anzi, se si allarga l’inquadratura su un orizzonte più ampio, si nota che il differenziale tra i nostri bond decennali e quelli tedeschi si è stabilizzato ad un livello che, se dovesse diventare la normalità, sarebbe da considerare una pericolosa patologia.
Dodici mesi fa lo spread era a 135 punti base, pressoché la stessa quota rilevata il giorno dopo le elezioni del 4 marzo (136), livello mantenuto fino alla metà di maggio. Poi, le convulsioni sulla formazione del governo e lo stallo istituzionale lo hanno spinto fino a quota 191 punti base il giorno del conferimento del primo incarico a Conte (23 maggio) per poi schizzare a 303 nei giorni del mancato accordo sulla nomina del ministro Savona. Rispettivamente +69% e +168% rispetto al minimo di 113 del 24 aprile. Poi, dalla nascita dell’esecutivo pentaleghista ai primi giugno, lo spread si è mantenuto sopra quota 200 fino a quando, da ottobre in avanti, essendo iniziato il tormentone sulla manovra finanziaria e scoppiato il contenzioso con l’Europa sul deficit, è schizzato oltre quota 280 punti, più del doppio rispetto ad un anno prima, è lì è rimasto, oscillando intorno ai 300 punti e più, fino a quando la legge è stata approvata in accordo con Bruxelles. Purtroppo, però, mentre le difficoltà politiche spingono lo spread verso l’alto velocemente, quando i problemi rientrano il differenziale non cala con la stessa rapidità.
E questo è un danno oggettivo già nel presente sia per la crescita dei tassi di interesse che paghiamo sul debito pubblico – 1,7 miliardi di maggiore spesa tra luglio e settembre già certificati da Bankitalia, che potrebbero diventare molti di più se lo spread dovesse rimanere su questi livelli – sia per l’aumento dei mutui per l’acquisto di edilizia residenziale, il cui tasso medio è passato dall’1,79% di luglio all’1,9% di novembre 2018, e per le imprese che si finanziano emettendo obbligazioni. Conseguenze destinate ad aggravarsi ora che alle difficoltà endogene della nostra economia – che balla sul filo della terza recessione in dieci anni, con Bankitalia che stima a +0,6% l’andamento del pil nel 2019 – se ne stanno sommando di esogene: dalla fine degli acquisti straordinari di titoli di Stato da parte della Bce al dramma della Brexit, dalla guerra commerciale innescata da Trump al rallentamento europeo, quest’ultimo particolarmente pericoloso perché coinvolge i principali mercati di sbocco del nostro export, Germania in testa.
Se questi sono i livelli dello spread che dobbiamo considerare come “normalità”, saranno mesi difficili per l’Italia, soprattutto se si considera che la Spagna, attualmente a 110, nei passati 12 mesi non ha mai superato quota 145. E peggio ancora se si prende in considerazione la Francia, che venerdì ha chiuso a 39 punti base e che nell’ultimo anno è sempre rimasta tra un minimo di quota 20 e un massimo di 55. Livelli da sogno per noi, tanto più che ogni punto di spread si ripercuote in interessi da pagare sul debito pubblico più grande d’Europa. Ci si abitua a tutto, ma in questo caso non è un bene. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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