Chiudiamo bottega?
Prendersela sempre con i mercati rende complicato collocare il debito
di Enrico Cisnetto - 25 novembre 2018
C’è il rischio che nessuno voglia comprarlo. Oltre ad essere finito sotto procedura di infrazione da parte dell’Unione europea perché “eccessivo”, oltre ad avere un costo di mantenimento intorno al 5% del pil, che lo rende mostruoso, il nostro debito pubblico è talmente poco attraente che è ormai un’incognita trovare i soldi per rifinanziarlo. Lo dimostra l’ultima asta dei Btp Italia, la seconda peggiore di sempre dopo quella del 2012, quando in piena crisi dell’euro si arrivò a 1,73 miliardi. Stavolta i risparmiatori hanno messo sul tavolo solo 863,34 milioni (a maggio scorso si arrivò a 4 miliardi) e gli investitori istituzionali 1,29 miliardi, per un totale di 2,16 miliardi, poco più di un quinto del ricavato atteso, nonostante una durata dei titoli ridotta a 4 anni e un tasso più alto (1,45%) delle precedenti emissioni. E se i 2.325 miliardi di debito diventano difficilmente rifinanziabili – considerato che per il 2018 è stato raccolto il 90% della liquidità necessaria e che l’anno prossimo ci saranno circa 400 miliardi di titoli in scadenza da rinnovare – allora sono guai seri.
Si dice: la bilancia dei pagamenti è in equilibrio, il risparmio aumenta ed è improbabile che il debito salga oltre il 133% del pil prima del 2021. Dunque, niente panico, nel lungo periodo siamo a posto. Ma il problema sono i prossimi mesi: con tassi e deficit in aumento, abbiamo crescente bisogno di liquidità, e i potenziali finanziatori fuggono. Quelli esteri hanno già tagliato la loro esposizione di 68 miliardi, in un esodo simile a quello del 2011-2012: detenevano il 30,4% a inizio anno, erano scesi al 24% a giugno, ora potrebbero essere sotto il 20%. Nel frattempo è arrivata in soccorso la Bce, che ha aumentato l’esposizione per 16,4 miliardi (tramite Bankitalia ha in pancia 391 miliardi di debito, pari al 16,8% del totale), ma il 31 dicembre l’ombrello di Francoforte si chiuderà. I privati italiani, poi, sono in preda ad un profondo senso di sfiducia – negli ultimi giorni su Google è stato cercato più “spread” che “reddito di cittadinanza” – e la quota di debito nelle loro mani (4,8%, pari a 112,1 miliardi) è destinata a scendere.
Restano le istituzioni finanziarie nostrane, banche e assicurazioni. Ma hanno già quasi un quinto del debito nei loro portafogli, perché dovrebbero incrementarlo? E poi, con lo spread sopra i 300 punti che procura loro pesanti perdite, anche volendo non potrebbero andare oltre. A maggior ragione in caso di “downgrade” del rating Italia, visto che Bot e Btp non potranno più essere presentati come “collaterali” in garanzia presso le istituzioni internazionali per ricevere prestiti. E come se non bastasse, nel 2020 le nostre sette maggiori banche dovranno restituire una prima tranche da 105 miliardi dei finanziamenti (Tltro) erogati dalla Bce.
Si è sempre detto che fosse un bene avere in mani italiane la maggior quota di debito possibile. Era comunque un concetto discutibile, ma adesso – con i risparmiatori retail diffidenti e le banche con le mani legate – non può più comunque essere così. Ergo, dovremo cominciare a riconsiderare i nostri pregiudizi, infantili, sui mercati suk in mano a gnomi cattivi, e impegnarci a riconquistare credibilità come premessa per riconquistare interesse intorno alle obbligazioni di Stato. Se non troviamo al più presto chi ci presta i soldi, possiamo chiudere bottega. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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