Rischio recessione
Il vero piano B che ci serve è quello per evitare la crisi economica
di Enrico Cisnetto - 11 novembre 2018
Mentre la politica italiana è in tutt’altre faccende affaccendata, l’economia si è fermata, entrando in stagnazione. E ora, già nell’ultimo trimestre dell’anno, rischia di mettere la retromarcia, portandoci entro giugno 2019 in recessione per la terza volta dall’inizio di questo secolo. L’Istat ha certificato la “crescita zero” nel terzo trimestre 2018, come non accadeva dal 2014, e stima probabile il segno meno del pil tra ottobre e dicembre. Oltre all’Istat, lo pensa anche la banca londinese Barclays, che per l’ultimo periodo dell’anno quantifica un calo dello 0,14%. E non si contano più gli istituti che hanno rivisto al ribasso le stime sull’Italia: dall’Ocse all’Fmi, da Bankitalia a Confindustria e Confcommercio, dalle agenzie di rating alle grandi banche commerciali internazionali. E anche chi tiene ancora alte le previsioni 2019, come la Commissione europea – potrà sembrare strano, vista la guerra in corso tra Bruxelles e Roma, ma è così – comunque le ha ridotte. Nel caso della Ue, il taglio è di un decimale, abbassando dall’1,3% stimato a metà luglio a un pur sempre generoso 1,2% la crescita del pil, ma nello stesso tempo identificandoci come l’ultimo vagone del treno europeo per il prossimo triennio.
Vedremo chi avrà azzeccato di più le previsioni. Ma fin d’ora una cosa è sicura: siccome si entra formalmente in recessione con tre trimestri negativi consecutivi, sarà decisivo l’andamento del primo semestre 2019. Empiricamente, però, le tipiche conseguenze della recessione sono già nell’aria, a cominciare dai consumi. A settembre le vendite sono calate dello 0,8% su base mensile, in forte controtendenza rispetto al +0,6% di agosto e molto al di sotto delle aspettative degli analisti che attendevano un calo di un solo decimo di punto. Su base annua, poi, l’arretramento è del 2,5%, peggiore della precedente stima del 2,1%. E, se gli italiani non comprano, è (anche) perché aumenta la sfiducia. A ottobre il relativo indice Pmi dei responsabili acquisti ha registrato la sua prima frenata da due anni e mezzo, attestandosi a quota 49,2 punti (dal precedente 53,3) mentre l’indice di fiducia del settore manifatturiero è sceso sotto quota 50, lo spartiacque tra l’espansione e il rallentamento delle attività. A ben vedere, le precedenti due fasi recessive (2008-2009 e 2011-2012) sono state entrambe anticipate dall’indice Pmi sotto quota 50, con sei mesi di anticipo. E la storia potrebbe ripetersi perché, terminando il 2018 in frenata, entriamo nel 2019 da fermi.
L’altro indicatore recessivo è quello degli investimenti, oggi bloccati non solo dal clima di sfiducia ma anche dal credit crunch strisciante in corso, figlio dello spread ormai stabile a 300 punti. Oltre ad esserci già costato un miliardo e mezzo (stima Bankitalia) e arrivare a pesare fino a 20 miliardi di maggiori interessi sul debito nel triennio 2018-2020 (secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio), è una zavorra micidiale per le banche che, piene di titoli di Stato, rischiano che di ritrovarsi titoli spazzatura in caso (probabile) di downgrade. E per questo hanno già cominciato a (ri)chiudere i rubinetti del credito alle imprese.
Siamo entrati in una spirale negativa, e non sarà certo questa manovra, all’insegna del welfare assistenziale fatto in deficit, a bloccarla. Ecco il vero piano B che ci occorre: quello per evitare la recessione. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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