Più soldi, meno regole
Rilanciare gli investimenti partendo dalle grandi opere
di Enrico Cisnetto - 22 luglio 2018
Più soldi e meno regole. Di fronte al rallentamento della già anemica ripresa economica, l’unica soluzione è tornare a investire. O, quantomeno, evitare che le risorse disponibili finiscano per essere bloccate dai lacci e lacciuoli della legislazione e della burocrazia italiana. Giovanni Tria lo diceva già da economista e lo ha ribadito da ministro dell’Economia: più che intervenire con bonus per drogare la domanda interna (tipo gli 80 euro renziani), è necessario ristrutturare l’offerta produttiva, arretrata e inefficiente, attraverso un piano di investimenti pubblici, che poi sono volano e moltiplicatore di quelli privati, soprattutto se puntano a (ri)alimentare lo sviluppo infrastrutturale del Paese.
Ora, nonostante le polemiche politiche con cui si cerca di sgambettarlo, Tria sta provando a mettere in campo misure concrete, facendo sapere che i soldi ci sono – 150 miliardi stanziati nel bilancio statale nei prossimi 15 anni, di cui 118 disponibili subito – e che quindi c’è poco da lamentarsi, con l’Europa o chicchessia, se gli investimenti non partono. Tria ha messo a punto con la Ragioneria Generale un nuovo contratto standard di concessione per progettazione, costruzione e gestione di opere in partenariato pubblico-privato allo scopo di riavvicinare l’interesse dei fondi infrastrutturali, il cui contribuito è previsto in calo dai 127,6 miliardi degli ultimi tre anni ai 108,6 dei prossimi. Inoltre, sta lavorando alla creazione di una task force Mef-Mit con Palazzo Chigi Anac e Corte dei Conti, allo scopo di fluidificare le procedure e fornire assistenza alle amministrazioni locali che non hanno le dovute competenze o si perdono nella giungla normativa italiana.
Purtroppo i dati parlano chiaro. Secondo l’Agenzia per la Coesione Territoriale, che ha monitorato 56 mila interventi per un valore di 120 miliardi, per terminare un’opera del valore di 100 milioni ci vogliono in media 15,7 anni, in aumento rispetto ai 14,7 di un anno fa. Addirittura peggiori sono i dati dell’Ance: ci sono 270 opere pubbliche bloccate, per un valore di 21 miliardi che potrebbero aggiungersi alle 670 che sono state certificate dal Mit come definitivamente “incompiute”. Terminare i cantieri come la Gronda di Genova, la terza corsia dell’A1 tra Firenze e Pistoia e le tangenziali tra Verona-Vicenza-Padova, secondo l’associazione dei costruttori potrebbe voler dire 75 miliardi di maggiori ricadute sull’economia e 330 mila posti di lavoro in più. Senza contare i lavori per cui i fondi privati ci sono, ma non partono perché bloccati dalla burocrazia. Primi tra tutti quelli su A24 e A25, unica linea di collegamento strategica tra Est e Ovest del Paese, considerata essenziale dalla Protezione Civile, ma a forte rischio sismico (54.000 scosse nel solo 2017) e il cui nuovo piano è irresponsabilmente fermo tra i corridoi dei ministeri. Ma anche quei progetti per collegare “l’ultimo miglio” tra i porti e le ferrovie, in modo da favorire sia i trasporti intermodali delle merci, sia il trasferimento dei passeggeri tra le banchine e le destinazioni finali.
I margini di bilancio sono stretti, eppure negli ultimi anni la spesa pubblica è aumentata nella parte improduttiva ed è diminuita in quella in conto capitale. È evidente che è necessario fare l’opposto. Quello sì che sarebbe vero “cambiamento”. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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