La salute al centro
Centralizzare la sanità per arginare le spese regionali fuori controllo.
di Enrico Cisnetto - 10 giugno 2018
Allontanare la politica dalle scelte dei manager della sanità e permettere a tutti un equo accesso alle cure. Se fosse, l’intento programmatico del neo presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sarebbe un vero “cambiamento”. Ma c’è un solo modo per realizzarlo: fare marcia indietro sulla regionalizzazione della sanità.
È vero che la spesa sanitaria pubblica dal 2010 al 2016 è scesa dell’8,8%, mentre è cresciuta in Germania (+11,4%) e Francia (+6,2%). Ed è anche vero che nel Def ne è prevista un’ulteriore riduzione, e pertanto sarebbe positivo invertire la tendenza. Anche se, va detto, il peso delle uscite sul pil è quasi nella media Ocse (8,8% contro 8,9%). Tuttavia, come emerge da un rapporto Censis appena pubblicato, di fronte ad una sanità pubblica che ha punte di eccellenza ma anche grandi aree inefficienza se non di degrado, gli italiani ricorrono sempre più alla spesa privata, costantemente in crescita da anni e passata dai 37,3 miliardi del 2017 ai 40 di quest’anno (+7,2%). Un esborso medio di 655 euro a cittadino per 44 milioni di persone, di cui 7 milioni si sono indebitati e 2,8 milioni hanno attinto ai risparmi. Inoltre, le spese per la sanità privata crescono più velocemente dei consumi, specie tra le fasce più deboli, che sono quelle che più soffrono l’inefficienza del settore pubblico. Come dimostra il fatto che un quarto degli esborsi (circa 10 miliardi) è dovuto a liste d’attesa mortalmente lunghe.
Al di là della quantità della spesa, però, sarebbe bene che ad aumentare fosse la qualità del servizio sanitario. Intesa, soprattutto, come capacità di essere uniforme su tutto il territorio. Pensate che, prima della nefasta riforma del Titolo V (del 2001) che ha spostato la competenza della sanità dallo Stato alle Regioni, l’Oms metteva la sanità italiana al secondo posto nel mondo. Poi, la creazione di 20 sistemi sanitari diversi, oltre a complicare i processi decisionali e moltiplicare le procedure amministrative, ha lasciato campo a gestioni clientelari delle Asl – nomine, acquisti, appalti – con la spesa che è esplosa e i servizi che sono peggiorati. Le uscite complessive, infatti, sono passate dai 42 miliardi di euro del 1990, ai 60 del 2000, fino ai 114 attuali. In pratica, nel decennio precedente la regionalizzazione la spesa sanitaria è cresciuta del 19,3%, mentre in quello successivo del 70%.
Evidentemente qualcosa è andato storto. Forse perchè le Regioni gestiscono la sanità per il 60% con fondi non legati al loro prelievo fiscale, quindi senza doverne rendere conto. E, infatti, numerose sono le strutture che sono state commissariate. La propaganda del “portiamo il potere vicino al cittadino” non ha rappresentato solo la fine della correlazione tra prelievo e servizi e della divisione fra controllori e controllati, ma ha anche creato un contenzioso paralizzante tra Stato e Regioni (1500 conflitti costituzionali, uno ogni 3 giorni). Inoltre, con 20 sistemi sanitari diversi, sono sorti fenomeni distorsivi: dal “turismo sanitario”, soprattutto da Sud a Nord, ai “costi non standard”.
In Italia, nel 2050 una persona su tre avrà più di 65 anni e la sanità sarà sempre più centrale. Pensare di cambiare il sistema senza riaccentrare le competenze in capo allo Stato attraverso una moderna forma mutualistica è pura velleità. Vediamo se il “governo del cambiamento” saprà rendersene conto. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
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