La tregua dei mercati non durerà
Imperativo risolvere in fretta il rebus elettorale del Paese
di Enrico Cisnetto - 11 marzo 2018
Fin qui non è successo niente. Ora, però, il pericolo più grande è pensare che il pericolo sia passato. Il risultato delle elezioni e lo stallo che sembra derivarne non hanno influito sullo spread, stabile tra i 130 e i 135 punti a parte il picco di lunedì a 143, ma ha fatto bene Mario Draghi a ricordarci che i mercati prima o poi entreranno in azione e la tranquillità potrebbe non durare a lungo. Per fortuna la congiuntura internazionale è al momento positiva, come dimostra il rialzo, seppur leggero, delle stime della Bce sulla crescita 2018 dell’eurozona (da +2,3% a +2,4%). Ma l’Italia non può stare tranquilla, perché la sua debolezza endogena la rende più esposta alle turbolenze esogene. Nei prossimi anni, infatti, il ciclo economico è previsto in frenata. L’impegno a incrementare e allungare quel Quantitative Easing che ci ha protetto dalla speculazione per almeno tre anni, è stato annullato da Draghi. E i rischi di una guerra commerciale con gli Usa, di una nuova bolla finanziaria o di una nuova recessione, che ci sono per tutti, potrebbero essere esiziali qualora ci trovassimo a lungo senza governo. Si dice: la Spagna ha vissuto di governi minoritari, in Belgio è mancato l’esecutivo per anni, a Berlino ci hanno messo 6 mesi per varare l’ennesimo governo Merkel. Vero. Ma noi abbiamo un debito che gli altri non hanno, la nostra economia è più debole (almeno di quella tedesca), e il nostro sistema politico-istituzionale è così consunto che l’eventuale mancanza di uno sbocco post elettorale rende più che probabili un nuovo attacco della speculazione, una risalita dello spread e nuove tensioni con Bruxelles.
L’Italia, insieme solo a Cipro e Croazia, è tra i pochi paesi con “squilibri macroeconomici eccessivi” e non è un caso che la Commissione europea in settimana abbia alzato da “basso” a “medio” il livello di rischio che nuove uscite – dal previsto aumento della spesa pensionistica alle altre ipotetiche spese, come il reddito di cittadinanza o la flat tax, frutto delle promesse della campagna elettorale – possano impattare ancora di più sulla sostenibilità del nostro debito pubblico. Ha rimarcato il problema il vicepresidente Dombrovskis, chiedendo una correzione di tre decimali sul deficit 2019 (5,4 miliardi), senza escludere la necessità di una manovra correttiva da 3,5 miliardi. Il governo italiano ha precisato che il Def, che deve essere pronto per il 10 aprile, sarà asettico e i conti verranno “congelati” in attesa del nuovo esecutivo. Già, ma quando? E poi, giuste o sbagliate che siano, le regole sono quelle, tanto che otto ministri delle finanze dell’Ue ne hanno già chiesto il rigoroso rispetto. E, considerato che negli ultimi tre anni ci siamo già giocati 30 miliardi di flessibilità, è evidente che il cerchio si stringe. Soprattutto perché “il bilancio pubblico è di massima importanza nei paesi ad alto debito” (Draghi dixit). Noi in testa. Tanto che la decisione di non sforare il 3% del deficit è stata una forma di garanzia sulla solvibilità data per non finire un’altra volta sotto attacco della speculazione. Ora ci risiamo. E se a questo aggiungiamo che l’autorità bancaria europea ha lanciato un nuovo allarme per il permanere di troppe sofferenze in pancia alle banche italiane nonostante i progressi fatti nel loro smaltimento, ecco che risolvere il rebus post elettorale diventa un imperativo. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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