Patto della fabbrica
La svolta sulla rappresentanza da fare subito dopo il voto
di Enrico Cisnetto - 05 marzo 2018
Arriva a fine legislatura, e più che l’inizio di un nuovo ciclo di relazioni industriali l’accordo tra Confindustria e sindacati appare un assemblaggio, una codificazione di tutte le cose fatte recentemente in modo disordinato. Ed è anche un tentativo di riproporre le intese siglate negli anni passati e che nel frattempo sono rimaste inapplicate. Ma contiene una novità concreta e non di poco conto – un nuovo metodo di calcolo della rappresentanza delle associazioni datoriali – e lancia un messaggio, cioè la volontà delle parti sociali, di tornare protagonisti e chiudere la stagione (renziana) della “disintermediazione”.
Nel concreto il “patto della fabbrica” punta a riaffermare il primato del contratto tra le parti rispetto alla legge. A cominciare dall’introduzione del “trattamento economico minimo”, che tra l’altro dovrebbe bloccare le iniziative politiche per un “salario minimo”. Ma pone anche il tema del rafforzamento delle politiche attive e dei percorsi di formazione e riqualificazione professionale. Il che è certamente un merito, vista la frequente assenza di competenze adeguate rispetto alla domanda delle imprese. E poi vengono inseriti elementi di welfare aziendale, di sostegno all’occupazione giovanile, di incentivi alla produttività. Tuttavia è solo una sistematizzazione che riconosce e codifica le novità già intervenute.
L’elemento più interessante di questo lavoro di razionalizzazione, tuttavia, è il metodo di calcolo delle rappresentanze, che dovrebbe aiutare a mettere un freno al proliferare dei contratti collettivi – quelli depositati al Cnel sono 868, una follia – molti dei quali (almeno 300) “irregolari”, spesso perchè stipulati da sindacati “fantasma” filo-padronali e da aziende che agiscono ai confini della legalità, o da consulenti più che da associazioni di imprenditori. Una giungla in cui qualcuno ripropone “gabbie salariali” con retribuzioni differenziate su base regionale, qualcun altro la settimana da 45 ore ma con salario standard, senza dimenticare le mansioni “jolly”, “le ferie a tutele crescenti” e altre forme di dumping su regole e salari. Certo, la mancata personalità giuridica dei sindacati, l’art. 39 della Costituzione inattuato e il fatto che nessuna legge può dare efficacia generalizzata ad un contratto collettivo, hanno complicato la situazione. Ma le distorsioni sulla effettiva rappresentanza dei sindacati (irrisolvibile senza una modifica dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori) e delle associazioni degli imprenditori, sono un ostacolo da superare subito, se non si vuole che anche questo accordo rimanga lettera morta.
A guardar bene, però, in questo “patto della fabbrica” emerge la volontà di Confindustria di farsi misurare, di aprirsi alle necessarie innovazioni nel mondo delle relazioni industriali. Infatti, è difficile guardare a Industria 4.0, all’aumento della produttività, alla flessibilità, allo smartwork, alla formazione continua, senza un modello contrattuale “sartoriale” cucito sul territorio e sull’azienda. Se vogliamo imitare il modello tedesco, dalla settimana flessibile alla partecipazione dei lavoratori all’impresa, fino al diritto alla formazione continua come chiave delle produzioni ad alto valore aggiunto, non possiamo che partire da qui. Facciamo che questo “patto della fabbrica” sia il primo dei passi avanti da fare. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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