Il fardello della malagiustizia
La scarsa efficienza della giustizia costa al Paese il 4,9% del Pil
di Enrico Cisnetto - 28 gennaio 2018
Se non fosse per qualche dichiarazione del Cavaliere – ma pro domo sua, per la “riabilitazione” che vorrebbe avere dalla Corte Europea – nessuno in questa paradossale campagna elettorale parla più di riforma della giustizia, seppure i problemi siano ancora tutti lì, irrisolti. Certo, nell’ultima legislatura ci sono stati piccoli progressi nel diritto fallimentare, nel codice e nel processo penale, come anche nel civile. Ma non basta, perché restiamo nelle ultime posizioni in Europa, pagando un prezzo alto non solo alla civiltà giuridica, ma anche all’economia. All’inaugurazione dell’anno giudiziario è emerso che la durata media dei processi si avvicina ancora ai tre anni, che nel civile gli arretrati sono 107 mila e che nel penale, nonostante le ultime semplificazioni, ci vogliono ancora più di 200 giorni per smaltire una causa. Uno scenario da incubo in cui, tra l’altro, il 42% dei detenuti sono in carcerazione preventiva o custodia cautelare, quindi tecnicamente innocenti fino a prova contraria. E peggio va in materia fiscale, visto che per riscuotere un credito ci vuole il triplo che in Francia e Germania. C’è poco da dire: in queste condizioni nessun imprenditore è invogliato a investire, soprattutto se il costo del processo arriva mediamente al 30% del valore della causa.
Per questo Confindustria sostiene che i problemi della giustizia, se risolti, frutterebbero qualcosa come il 4,9% del pil, mentre per Bankitalia pesano per circa 15 miliardi ogni anno. D’altra parte, le imprese sono oggetto di milioni di contenziosi arretrati che pesano per decine di miliardi. E sono tanti gli esempi di “costose” forzature: da quello dell’Ilva, dove la giustizia amministrativa viene usata per bloccare il piano del governo e il rilancio dell’acciaieria, a quello degli ex vertici Finmeccanica, assolti sia per una vicenda legata a forniture in India sia per questioni relative all’Algeria, mentre per anni la nostra maggiore realtà industriale, oggi Leonardo, ha subito notevoli contraccolpi economici e reputazionali.
Senza contare il caso più assurdo di tutti, quello che riguarda Marco Tronchetti Provera. Il 18 gennaio, infatti, la Cassazione ha stabilito che si dovrà celebrare un nuovo processo d’appello, il terzo dopo due assoluzioni perché “il fatto non costituisce reato” e nonostante che il presidente della Pirelli abbia a suo tempo rinunciato alla prescrizione. Oltretutto, per un reato di “ricettazione” che consisterebbe nell’aver ricevuto un cd-rom fornito dai servizi di sicurezza interni alla Telecom in cui erano contenuti le informazioni che gli allora concorrenti di Telecom Brasil stavano raccogliendo su di lui e la sua famiglia. Era il 2004, Tronchetti Provera denunciò tutto alla procura, che fece partire le indagini. Adesso, dopo quasi 14 anni, assurdamente la vicenda non è ancora finita. E per fortuna che la Pirelli va bene di suo. Pensate cosa sarebbe successo se fosse stata claudicante, o se fosse più piccola e perciò più fragile.
Insomma, un caso kafkiano che racconta di quanto la giustizia in Italia non funzioni. E di quanto siano devastanti gli effetti collaterali per gli individui, per le imprese e per il sistema economico del Paese. Purtroppo, però, di tutto questo nei roboanti programmi elettori e nella ruvida campagna per il voto, non c’è alcuna traccia. (twitter @ecisnetto)
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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